Lo specchio della realtà: Il mercante di pietre e il cinema d’impegno civile PDF 
di Alessio Gradogna   

Uno specchio. Da sempre, e in particolar modo negli ultimi lustri, il cinema si è posto come Arte sociale. Una superficie riflettente del mondo che ci circonda, dei problemi che lo attraversano, delle paure che lo inglobano, dei delitti che lo imbarbariscono. Il cinema d'impatto sociale, negli anni, ha spesso assunto valenze di forte influenza massmediologica, ed è stato capace di smuovere l'opinione pubblica e di ergersi a contenitore simbolico della realtà (delle realtà) del tempo di appartenenza. Non è facile, peraltro, per il cinema, trovare il giusto punto di coesione, e la corretta formula che sappia stare in equilibrio tra le necessità diegetiche del racconto e i bisogni impellenti della denuncia. Il mostro della retorica è pronto a sbucare in ogni momento da un lynchano angolo nascosto, e la ricchezza culturale di ciò che il cinema si propone di analizzare rischia sovente di cozzare contro il limite della confusione stilistica, dell'afflato documentaristico mescolato con la fiction, della rappresentazione onniscente e oggettiva in bilico tra la sincerità d'intenti e il facile approdo all'ideologia politica come mezzo di propaganda. La mente, a questo proposito, va subito alle opere di Leni Riefenstahl, ebbre di elogio al patriottismo nazista; ai film del periodo fascista, spesso commissionati dallo stesso Mussolini, secondo il quale il cinema era una fortissima arma di propaganda; agli oltre 200 lavori realizzati in Francia durante l'occupazione tedesca nel periodo 1941-44; ai prodotti americani di celebrazione militarista come Berretti Verdi di John Wayne; e così via, fino ai giorni nostri.

Giorni in cui si sente la necessità di un cinema che sappia scavare tra le piaghe di una società, quella di inizio terzo millennio, sempre più follemente indirizzata verso l'autodistruzione, perduta nelle nebbie occlusive dei fondamentalismi, della prigionia intellettuale, di un ritorno allo stato brado per il quale ogni uomo è un nemico da assaltare e distruggere, in barba ai messaggi di pace universale e di unione tra i popoli. In un mondo segnato indelebilmente dalla macchia rosso sangue dell'11 settembre 2001, il cinema, per l'ennesima volta (come fu per la Seconda Guerra Mondiale, per la Guerra Fredda, per il Vietnam, per il timore delle armi nucleari), bussa alla porta dell'anima di ogni spettatore, e chiede un posto in cui insediarsi, nella memoria collettiva di ciò che è stato e di ciò che potrebbe essere. Per esorcizzare il terrore, per aprire gli occhi di fronte al pericolo che ci circonda, per provare a spiegare organicamente cause e conseguenze di certi fenomeni, il cinema può essere una fontana d'acqua fresca a cui abbeverarsi, non certo per una sorta d'immedesimazione al tema che viene trattato, quanto per facilitare la più profonda consapevolezza della realtà.

Riflettere sulla quotidianità dei nostri tempi, sulla guerra, sui massacri compiuti nel nome di una fosca promessa di gloria nell'aldilà, sulle faide autoctone, sul terrorismo come realtà metaforica di una nebulizzazione dell'intero universo. Riflettere attraverso un mezzo espressivo complesso e stratificato come il cinema, che porta all'interno di sé, inevitabilmente, una poetica soggettiva, un punto di vista, un'idea, una sensibilità d'autore. Ed è proprio qui, al di là del tema prescelto, quando la storia di singoli individui appartenenti a microcosmi ben definiti incontra la Storia di un popolo, di una civiltà, di una nazione, che sta il nucleo fondamentale in cui si attua la riuscita di un film a carattere sociale-politico-populistico. Così Rossellini, con struggente empatia e mai declamata poesia, ha saputo disegnare le coordinate di un paese disintegrato dalle (nelle) macerie di un conflitto disumano. Così Ken Loach, nella sua limitata ma efficace strada narrativa, porta avanti da tanti anni i discorsi sulla battaglia per l'indipendenza dell'Irlanda e sulla working-class inglese, fondando la propria forza espressiva nella sobria capacità di legare destini individuali e destini collettivi. Così Nanni Moretti, pur in un film non completamente riuscito come Il Caimano, mette in scena la sua idea di una nazione (l'Italia) filtrandone con intelligenza il simbolo assoluto di massa (Berlusconi) con la sofferenza intima e culturale (il personaggio di Silvio Orlando). Così Paul Greengrass, nel recente United 93, fonde splendidamente il cotè documentaristico con una realtà più nera del nero, amalgamando con estrema sensibilità la precisione della ricostruzione storica e l'immaginario di ciò che sopra quell'aereo, negli ultimi istanti di vita, un manipolo di (quasi) eroi possa aver pensato, detto, provato. Felice punto d'incontro tra documentario e fiction, cinema sociale e thriller, United 93 è la faccia buona della medaglia, ovvero quando il cinema denuncia con garbo la realtà lasciandoci dentro un macigno che per molto tempo non dimenticheremo.

Ma c'è anche l'altra faccia dello stesso conio, la dimostrazione empirica del sopracitato equilibrio, che a volte regge, a volte sbanda, a volte precipita. Ovvero quando il cinema socio-politico è un semplice espediente per dimostrare ad hoc una tesi, un preconcetto, un'ideologia schierata, per la quale l'oggetto cinema è puro pretesto e mera scatola d'immagini. È il caso de Il mercante di pietre di Renzo Martinelli. Si parla di terrorismo islamico (argomento che più attuale non si può), di un militante convertitosi ad Al Qaeda che ha il compito di far scoppiare una bomba, della sua ignota vittima che poi diviene il suo amore, di un sacrificio compiuto nel nome di una Fede. Ma lo si fa dall'alto di un'idea programmatica errata, secondo la quale la macchina-cinema altro non è se non il tramite per mettere in scena una personalissima idea di mondo, un'idea discutibile ma pur sempre rispettabile, che però non c'entra nulla con una delle funzioni precipue del cinema, in particolar modo del cinema d'impegno civile: la possibilità d'infondere nello spettatore emozioni, dubbi, idee, perplessità, grazie alle quali egli stesso possa riflettere su ciò che ha appena veduto per giungere infine a una propria idea, a un proprio giudizio. Il mercante di pietre è cinema di pura manipolazione ideologica, cento minuti di infinita tautologia con la quale Martinelli mette in scena un'apologia di se stesso e delle proprie convinzioni, mascherandosi dietro a ciò che dovrebbe far riflettere e che invece delude per l'arroganza culturale, l'inutile sbandieramento di (presunta) abilità tecnica attraverso un uso della macchina da presa e del montaggio vicino alla pubblicità (non a caso un perfetto strumento di diffusione di idee da inculcare nella testa delle masse), e il pletorico tentativo di unire insieme dramma e melodramma. Nel film di Martinelli c'è il Bene e il Male, senza via di mezzo, in una concezione manichea di eccessiva semplificazione, c'è il giusto e lo sbagliato, ci sono i buoni e i cattivi, ma non c'è il cinema, non c'è la riflessione, non c'è l'umiltà. Forse però siamo in errore, perché come candidamente sostiene a un certo punto Jane March (la protagonista femminile), "voglio andare al cinema a vedere un film, uno che i critici hanno fatto a pezzi. Quindi sarà un buon film", con successiva risposta del marito "i critici sono persone molto frustrate". Chissà, può anche darsi, ogni opinione è rispettabile in quanto opinione, ma nasce il sospetto che il regista abbia inserito questi dialoghi (assolutamente estranei a qualsiasi contestualizzazione della narrazione) per mettere le mani avanti, rendendosi aprioristicamente conto del fallimento de Il mercante di pietre.

È lo stesso regista che sostiene come tra qualche anno l'Islam invaderà definitivamente l'Occidente, come i Cristiani non siano capaci di sacrificarsi per il proprio Dio, come non ci sia spazio per gli islamici moderati e pacifici. Ma è appunto la moderazione che manca in questo film, o per meglio dire la consapevolezza che ogni provocazione, sobria o urlata che sia, per essere credibile non può esimersi dall'appoggiarsi su di un impianto drammaturgico solido. Ed è lo stesso regista che nelle interviste dichiara di girare armato, e proclama "l'Islam nel suo complesso è realtà multiforme. Ma c'è una corrente dell'Islam, quella wahabita, che sta perseguendo una strategia pericolosa. L'Europa pare non accorgersene: è passiva, silenziosa, non reagisce. Io credo che il pericolo c'è ed è grande ... Dobbiamo reagire!". Sì Martinelli, è verissimo, dobbiamo reagire: ma non così. Il cinema d'impatto socio-politico è, o dovrebbe essere, un'altra cosa. Provocazione ma con compattezza, idea senza supponenza, verità senza sentenze, analisi di una cultura indigena o confronto tra culture diverse senza prevaricazioni teoriche. Chiedere a Rossellini, a Loach, a Moretti, a Greengrass, ma anche a Romero, a Rosi, a Petri, al Bowling for Columbine di Moore, a tanti altri. Per fortuna, per riflettere sulla realtà, possiamo rivolgerci a loro.

 


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