Truman Capote - A sangue freddo: maschere per un massacro PDF 
di Piervittorio Vitori   

Come mai sembro così giovane? È semplice: sono rigidamente vegetariano, dormo dodici ore tutte le notti, adopero tanto cerone.

A descriversi così è Lionel Twain, l'eccentrico milionario di Invito a cena con delitto (Murder by death, 1976, regia di Robert Moore da un testo teatrale di Neil Simon), disposto persino a morire (almeno apparentemente) pur di poter rivendicare la propria statura di criminologo davanti ai cinque detectives più celebri del mondo. Ad interpretare Twain, comparendo nel suo unico vero ruolo d'attore - trent'anni prima che la strepitosa prova di Philip Seymour Hoffman (Oscar meritatissimo, il suo) ne riportasse la figura sullo schermo -, c'era Truman Capote. Cappello floscio calcato in testa, voce stridula, vanità, megalomania: a quanti abbiano un'idea anche solo minima dell'autore di "A sangue freddo", apparirà chiaro come lo scrittore si sia prestato ad un'autoironica parodia. E proprio la frase citata in apertura può fungere da aggancio a quello che pare essere l'aspetto chiave della figura capotiana, almeno per com'è tratteggiata nel film di Miller: il mascheramento, l'occultamento del sé, la rimozione di un'identità a vantaggio di un'elaborata messinscena.

Nella prima scena in cui compare, ed in seguito diverse volte lungo l'arco del film, il protagonista protesta la propria sincerità, tanto nei confronti della sua opera letteraria quanto della sua condotta in senso lato. Ma si tratta invece, come vedremo, della prima di una lunga serie di menzogne. Generalmente vanitoso, falsamente modesto, egocentrico (è incredibile la sua tendenza a portare ogni discorso su di sé, quasi gli fosse impossibile non ergersi a metro di paragone e misura di tutto ciò che ha e gli accade intorno), lo scrittore ha invece un atteggiamento paradossalmente distaccato quando giunge ad Holcomb. Inizialmente incapace di provare empatia nei confronti della cittadina, degli abitanti e della tragedia che li ha sconvolti, ostenta di contro un approccio a metà tra il disprezzo dello snob e la freddezza analitica dell'entomologo (1), aspetto, quest'ultimo, che, unito alla precisione della sua prosa, si rivelerà poi una delle carte vincenti di "A sangue freddo". Pian piano però il distacco viene meno: se già è difficile credergli quando cerca di convincere l'amica Harper Lee che il paesaggio rurale del Kansas non gli ricorda affatto l'Alabama dell'infanzia, la prima picconata alle quinte del suo personale teatro la dà l'incontro con Alwin Dewey, lo sceriffo interpretato da Chris Cooper, che rimarrà "tra i pochi affetti disinteressati di un'intera esistenza" (2). Ma quella decisiva ai fini del coinvolgimento dello scrittore nei fatti narrati viene poco dopo, con la visione dei cadaveri nelle bare, la cui descrizione, guarda caso, viene privilegiata in sede di sceneggiatura quando si tratta di mettere in scena la lettura pubblica di New York che segna l'inizio della fortuna di "A sangue freddo". Ed entra qui in gioco la chiave di questa indagine: l'occhio, che della maschera è l'elemento assente, quindi quello che ci permette di andare oltre la costruzione del sé.

L'occhio
All'inizio del film sono caduto in un equivoco: osservando la maniera in cui Capote si propone ai suoi interlocutori e quindi si presenta al pubblico, mi è venuto istintivo concentrarmi sulla sua gestualità teatrale ("Un po' teatrale, lo riconosco, ma io ho sempre amato il teatro", dice d'altronde il Capote/Twain di Invito a cena con delitto, commentando la propria apparizione a tavola), e quindi sulle mani. Di James Dean, per sottolinearne l'irrequietezza e l'istintualità, qualcuno disse una volta che "pareva non sapesse mai dove mettere le mani". Sarebbe sbagliato spendere questo commento anche per Capote, dal momento che ben presto ci si rende conto che la gestualità, così come la sigaretta, il cappello (che per la verità nel film non si vede quasi mai) ed altri piccoli dettagli, sono solo componenti del "personaggio Tru". Piuttosto è opportuno, come accennato, guardare ai buchi della maschera, agli occhi, e non soltanto a quelli del protagonista. Parlare di occhi, e quindi di sguardo, a proposito di un'opera cinematografica è esercizio fin troppo banale e scontato, ma in questo caso giustificato dalla peculiarità dei personaggi e della vicenda. L'espressione normalmente blasé del volto di Capote cede ad un significativo tremolio dello sguardo quando egli si trova di fronte i visi bendati dei corpi dei Clutter. Al telefono con il compagno Jack Dunphy, Truman si dice confortato da quella visione, ma è l'ennesimo caso in cui sarebbe meglio non fidarsi troppo. Abituato nella sua vanità a vivere degli sguardi altrui - e si noti a questo proposito tanto l'ostentazione della sciarpa elegante davanti ad uno dei detectives quanto la piroetta nella hall dell'albergo davanti ad una già infastidita Lee - si trova in crisi davanti a degli occhi che non possono vederlo, e davanti ai quali non c'è finzione che abbia senso. La maschera cede davanti ad un'altra maschera: ma se la prima ha lo scopo di suscitare l'apprezzamento altrui, la seconda ha come fine l'occultamento dell'orrore, quell'orrore che Capote è destinato a (ri)scoprire in sé una volta messo a confronto con Perry Smith. Un legame che inizia appunto con un incrociarsi di sguardi, tra l'arrestato che passa in manette tra due ali di folla e lo scrittore che si sofferma su di lui già con un principio di inquietudine sul volto.

Mostri
La fascinazione/identificazione tra l'acclamato genio della letteratura ed il pluriomicida mezzosangue è spiegata da Capote con la battuta cardine del film: "È come se io e Perry fossimo cresciuti nella stessa casa. E un giorno lui è uscito dalla porta sul retro e io da quella davanti". Nonostante la sua importanza, tuttavia, questa frase non sarebbe forse nemmeno necessaria per comprendere il rapporto tra i due. A dispetto delle sue umili origini, di una drammatica vicenda familiare (elementi palesemente comuni alla giovinezza del protagonista) e di una condizione sociale certo non invidiabile, Smith si esprime, a parole ma anche disegnando, con una certa abilità: più che comprensibile che Capote vi veda un potenziale riflesso di sé. L'accostamento tra i due è suggerito, ad uno stadio ancora iniziale, da un'immagine precisa, l'ultima foto della serie scattata da Richard Avedon in carcere: c'è Perry, ma al suo fianco c'è Truman. Sorride, è vero, ma di lì a breve non avrà più molte ragioni per farlo: sta entrando nella vicenda così come è entrato nell'inquadratura. Il borghese agiato viene risucchiato dal "ventre molle" della società, per usare una definizione dello stesso protagonista; il tremolio agli occhi dell'uomo che sta per avviarsi al patibolo, durante uno degli incontri in carcere, fa il paio con il suo davanti ai corpi dei Clutter. Il suo agire cinico ed interessato lo rende mostruoso quanto il criminale propriamente detto (il titolo del libro si riferisce alla strage o al lavoro dello stesso scrittore?, si chiede Dewey e noi con lui), eppure da qualche parte si annida una strana forma di innocenza. Emerge quando Capote, deciso a farsi raccontare da Smith la notte del massacro, cambia strategia e, invece di pressare l'omicida, finge un passo indietro: "La verità è che non posso non voler essere tuo amico". Abituato a maschere e bugie cui lui per primo crede, nell'occasione in cui crede di mentire non si accorge che quella che sta enunciando è davvero la verità, o almeno una parte di verità. E per quanto possa sembrare un controsenso, è proprio il fatto che l'attaccamento a Smith sia interessato a costituire un'attenuante: è interessato nella misura in cui lo scrittore vi vede una parte di sé, un personaggio del suo romanzo-reportage. Capote pare incapace di vedere oltre la maschera che egli stesso ha messo sul volto dell'assassino, cosicché percepisce la tragedia che si è compiuta a Holcomb e l'agonia giudiziaria dei due criminali come tali solo nella misura in cui coincidono ed alimentano un'opera letteraria che richiederà sette anni di gestazione.

Nel frattempo l'entomologo è diventato egli stesso insetto, oggetto dello sguardo (il suo prima che quello altrui). Il protagonista è rientrato nella casa che aveva condiviso con Perry e, come i Clutter dalla loro, non riuscirà più ad uscirne davvero, non vivo almeno (3). Lo scrittore, l'eccentrico, il genio verrà segnato dall'esperienza in maniera irreversibile: finirà reietto per aver cercato, con "Preghiere esaudite", di togliere la maschera al jet-set americano, che gliela farà pagare con un ostracismo annegato nell'alcool e nelle droghe. Ma la sua, di maschera, quella che Capote pare cercare un'ultima volta nel ritratto eseguito da Smith (la scena che chiude il film), era caduta già anni prima, e in maniera molto più drammatica che nel finale multiplo di Invito a cena con delitto. Nell'ultimo colloquio con gli assassini, pochi minuti prima che siano giustiziati, Perry gli rivela che Richard ha deciso di donare gli occhi alla scienza, e Richard, forzando un sorriso: "Già. Pensa, Truman, un giorno potresti trovarti a camminare per Denver, o per qualche altro posto, e vedere questi occhi che ti fissano. Sarebbe inquietante, eh?". "Sì, sarebbe davvero inquietante", mormora Capote con voce spezzata. Senza più la maschera, resta un abisso dentro il quale anche gli occhi dei morti possono scrutare.

Note:
(1) A questo proposito è interessante notare come la metafora dell'entomologo fu usata da Cocteau per definire l'operazione fatta da Proust con la sua "Recherche", operazione a cui Capote si ispirò per l'incompiuto "Preghiere esaudite" (da "The Tru(e)man show", Luca Pacilio, su www.spietati.it).
(2) Da Il peggio di Capote, Antonio Monda, "La Repubblica", 23/12/2004.
(3) Ricordo come le didascalie poste a fine pellicola si incarichino di spiegarci che subito dopo la pubblicazione ed il successo di "A sangue freddo" iniziò il declino dello scrittore, fino alla drammatica fine.

 


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