Il doppio, lo specchio: strumenti per la creazione della diva PDF 
Enrico Ruffato   

Vi è qualcosa di magico nel cinema: l’antico che rivive, l’effimero che diventa eterno, il falso che viene percepito come vero. Tra i molteplici, infiniti fattori che rendono il cinema un mondo a sé, che mutano lo schermo in una finestra che ci permette di volgere lo sguardo verso visioni fantastiche, il primo che forse tutti gli spettatori notano è quello dato dagli attori. L’attore fa vivere il personaggio e fa vivere la storia. Persino un film senza storia difficilmente esisterà, senza un protagonista in movimento. Senza il corpo, il volto e lo sguardo in cui l’occhio dello spettatore si identifica, la magia del cinema diminuisce: l’attore vive nel film. E prima ancora dell’attore, l’attrice.

L’importanza della bellezza dell’attrice cinematografica è antica quanto il cinema stesso. Più antica del sonoro, più antica del colore. Gloria Swanson, Marlene Dietrich, Viven Leigh sono presenze che scavalcano il passaggio tra le varie forme, interpreti che si erano imposte al grande pubblico per il loro viso, le gambe, gli occhi, prima ancora che per la voce o l’espressività. La possibilità di creare una grande Diva come elemento “altro” e a suo modo “estraneo” all’attrice, che con la Diva condivide il volto e il corpo, cresce con la possibilità di espansione dei media. E il cinema, nel Novecento, è il più potente mezzo di divulgazione. Marylin Monroe sarà vittima e portatrice dell’immagine che il cinema ha fatto di lei: oggi è difficile parlare con qualcuno che conosca il suo vero nome o la sua relazione con Joe Di Maggio, ma tutti potranno dirci che a Marylin piacevano i diamanti. Forse questo percorso penalizza l’attrice; ma perché lo spettatore ama così tanto qualcosa che non è vero? E il cinema, come si rapporta a questo non essere “verità” della donna che viene rappresentata? Se la figura che il cinema crea per l’attrice fosse solo la normale (e sempre accettata) scissione tra personaggio e attore, quest’analisi sarebbe arida, oltre che applicabile ad entrambi i sessi; ma quando il cinema forma una donna che non invecchia, che non impara, che non muta, non ingrassa, e fa sì che queste caratteristiche oltrepassino il singolo film e diventino il marchio di fabbrica della professionista, allora si è creato a tutti gli effetti un doppio eterno.

Per l’industria spettacolare questo procedimento è quasi automatico. Nessuna attrice può pensare di sfondare se il suo viso non rimane per sempre nella mente dello spettatore. E non gli appare immutabile. Ma nella macchina spettacolare ci sono anche i registi. Ed essi, che conoscono la differenza tra ciò che sta dietro il cinema e ciò che appare sullo schermo, a volte trovano il modo di parlare della creazione del mito della donna attraverso il film. In modo crudele o spiritoso o terrificante o dolce. Il mestiere dell’attrice, per questi artisti, è basato fortemente su due fattori: l’immagine pubblicitaria e l’arte di essere belle. Il doppio e lo specchio sono le due forze che sovrastano e dominano la donna che lavora al cinema. Uno dei primi registi che analizza questo universo distorto è anche uno dei più salaci e pessimisti: Max Ophuls. La signora di tutti (1934) è il suo più riuscito tentativo di addentrarsi nel mondo delirante dell’ossessione sulla e nella diva. La bella Gaby Doriot (Isa Miranda) si suicida. Nell’agonia vissuta mentre i medici tentano di salvarla, l’attrice rivive come in un sogno, lucido e al tempo stesso delirante nella sua compostezza da arabesco, il percorso che l’ha portata a tale gesto disperato.

In questo film il corpo dell’attrice è lo schermo sul quale il mondo del cinema si proietta: non è il corpo che vive, ma esso è solo un’altra delle ombre che il cinema vende allo spettatore. Non vediamo mai Gaby recitare; vediamo solo la riproduzione della sua immagine di stella del cinema. Non a caso, la morte dell’attrice verrà rappresentata dal fermarsi delle rotative che stavano stampando la sua foto. Ossia un’immagine di ciò che non è più. Un corpo che, senza la forma che la pubblicità gli fornisce, non ha ormai modo di esistere se non come corpo morto. Il doppio (Gaby e Gabriella- vero nome della protagonista) è la rappresentazione di un fantasma mostruoso che fagocita chi voleva solamente rivestirsene. Il doppio è dunque immagine e artificio, non realtà. Viene alla mente quel fantasma malvagio che gli dei creano per gettare il disonore su Elena, nell’omonima tragedia di Euripide. E l’immagine della diva crea una storia che con la donna vera può non avere a che fare, anche nella mente della stessa. Viale del Tramonto (Billy Wilder, 1950) apre la finestra su quello che il contrasto fra l’eternità del mito e la fugacità della bella freschezza può creare: una storia di disperazione. Quella figura che era familiare a Norma Desmond (Gloria Swanson) quando girava i suoi capolavori muti (La regina Kelly di Von Stroheim viene proiettato nella sua villa) è ormai scomparsa. E la ricerca della giovinezza si rivolge tutta verso una folle aggressione al corpo dell’attrice. Girate con un tono a metà fra il grottesco e il terrificante, le sequenze in cui la cinquantenne Norma tenta di dimostrare vent’anni creano uno spettrale parallelismo con le necessarie sedute di trucco che il cinema impone alla diva. Lucilla Albano, ne Lo schermo dei sogni (Marsilio, Venezia, 2004) argutamente sottolinea che quelle pratiche dolorose e ridicole sono solo la ripetizione di quello che probabilmente Gloria Swanson ha dovuto sopportare prima delle riprese. Il doppio corpo della diva non poteva trovare migliore rappresentazione che in questo film: le foto che ricoprono tutti i mobili, le finte lettere scritte dal maggiordomo, l’ultima inquadratura (”sono pronta per il mio primo piano”) creano una inquietante messa in luce della scissione dei ruoli che il cinema opera. Il primo piano finale è un primo piano per lo spettatore di Viale del tramonto; ma è anche il primo piano tanto agognato dall’attrice impazzita. Ed è lo specchio in cui, per l’ultima volta, lo sguardo folle di Norma si posa, ansioso di rivedervi presto l’immagine che dà la fama.

Per essere di nuovo famose bisogna diventare di nuovo giovani. Il percorso sul trattamento che il cinema riserva alla diva poteva però portare a qualcosa di anche peggiore, se Norma fosse dovuta tornare sempre più giovane, addirittura bambina. E passando da Norma a Jane, Che fine ha fatto Baby Jane? (Robert Aldrich, 1962) è un film che già dal titolo ci pone di fronte all’argomento della fine del mito e delle sue conseguenze. La piccola Jane è una bambina prodigio la quale, una volta cresciuta, vede concludere la sua carriera e iniziare quella della sorella. Invidiosa, la investe rendendola paralitica e nella vecchiaia la tortura immergendosi in un delirio sempre più profondo.

Cos’è la bellezza della diva? Per Jane, come per Norma Desmond, è integrità del corpo; ma quel volto che deve rimanere sempre uguale per l’ex stellina del cinema è invecchiato anche troppo presto. Ed ecco che il percorso iniziato con la dissoluzione del sogno si fa complesso, l’immagine che lo schermo cinematografico ci mostra è diversa da quella che la protagonista ha di sé. Oggetto femminile per eccellenza, lo schermo che Jane guarda è lo specchio. Quello strumento che serve alla donna per essere bella è anche la finestra sul fallimento di fronte all’impresa impossibile, quello di essere sempre più bella e sempre più giovane. Fino al punto in cui, ancor più grottescamente che non in Viale del tramonto (perché lì ancora c’era la consapevolezza dell’età anagrafica), lo specchio diviene simbolo del rito dell’attrice, impossibile da interrompere persino quando non c’è più bisogno di apparire sotto i riflettori. Il viso si è distrutto, l’occhio della ex diva guarda e non vede, lo specchio è un oggetto inservibile perché, se anche non è andato in frantumi, in pezzi è andata la mente della sua proprietaria. Il procedimento crudele che il cinema ha imposto all’attrice l’ha così contagiata da spingerla a essere qualcosa di diverso da sé, e a tentare di entrare nello specchio. Lo schermo cinematografico, la finestra dell’artificio sono divenuti i soli luoghi dove il corpo di Jane accetta di vivere. E dietro lo specchio appare la morte, come nei quadri di Bosch. Per continuare nel percorso individuato, si può affermare che peggiore della morte per l’attrice c’è la non-morte: lo sa bene Billy Wilder, che dopo Viale del tramonto ci propone una storia ancor più terribile, quella di Fedora (1972).

Il regista ci narra la storia di una stella del grande schermo che si è ritirata a Corfù mantenendo la sua bellezza nonostante l’età molto avanzata, e del segreto che il produttore recatosi da lei scopre. Il percorso che il cinema ha iniziato attorno al corpo e al volto dell’attrice in questo film raggiunge vette così sublimi e deliranti che si può affermare che la donna che sta dietro all’attrice si sia definitivamente dissolta: mentre Norma Desmond era una diva che voleva ad ogni costo tornare sugli schermi, e per questo doveva essere giovane, Fedora è un mito che non vuole tornare sugli schermi, ma che vuole mantenere solo l’eternità della sua immagine. Per questo, dopo aver provato le torture a cui si sottoponeva anche la protagonista di Viale del Tramonto e dopo essere rimasta sfigurata da un siero antirughe (il richiamo alla triste vicenda di cui è stata protagonista Laura Antonelli è automatico), l’anziana diva costringe la figlia a prendere il suo posto, rinunciando così alla propria identità pur di garantire l’immortalità al mito di Fedora. Le veloci sequenze della trasformazione di Antonia in Fedora portano lo sguardo dello spettatore su quella “produzione della bellezza” che il cinema impone: la dentiera, la parrucca, il trucco, tutti artifici che scompongono e ricompongono il corpo della diva, addirittura applicandone l’identità ad un’altra donna. Quel doppio e quello specchio che in età giovanile erano serviti a costruire il Mito ora devono continuare ad esistere ad ogni costo, anche lavorando da soli.

Dall’immagine della stella che viene venduta al pubblico a quella che nella mente dell’attrice si crea; dall’immagine mentale alla negazione della propria caducità umana; dall’attrice vecchia che non vuole esserlo alla donna che vuole vivere attraverso il mito, rinunciando perfino alla propria persona. Tutte queste creazioni le opera il cinema. Il truccatore, il regista, il tecnico delle luci, l’operatore alla macchina da presa. E quando l’attrice non è più nel cinema, è icona che non ha ambiente per muoversi. Il corpo dunque è una parte della donna, parte che viene usata e che poi le viene restituita senza molto curarsi della sua anima; ma se il cinema rinunciasse ad un’attrice con l’anima? In epoca di cinema digitale e di effetto speciale in computer grafica il cinema parla di ciò che i tecnici dell’informazione potrebbero anche arrischiarsi a fare: creare il corpo e non badare alla mente.  È quanto accade negli studi in cui viene progettata S1m0ne (Andrew Niccol, 2002), un’attrice digitale creata esclusivamente con l’ausilio del computer. La sua totale disponibilità alla produzione e al pubblico ne fanno la diva perfetta. Tanto perfetta che, quando supera in fama quella del suo creatore e viene per questo da lui eliminata, la polizia apre su di lei un’inchiesta per omicidio.

S1mone è il punto di arrivo del discorso che il cinema ha tenuto su di sé e dentro di sé (siamo andati a vedere al cinema dei film che parlavano di cinema). Un’attrice bellissima, non capricciosa, non caduca, obbediente e misteriosa. Il mistero di Gaby, di Norma, di Fedora è rimasto; ma non vi è più una donna che lo trasmetta. Paradossalmente, quello specchio che serviva a costruire la bellezza prima delle riprese e quel doppio che doveva mantenerla (mentre l’attrice viveva la sua vita di donna) ora non riflettono e non raddoppiano più nulla. Il cinema si rispecchia nello schermo, e dal cinema nasce la diva. Non c’è più un senso inverso di percorrenza. S1m0ne è il traguardo a cui la fabbrica delle illusioni giunge. Significativamente, il nome della stella diviene qualcosa di ancora più simbolico che non nei film precedenti. L’astrazione a entità dell’attrice (Gabriella diventa Gaby, Gloria Swanson è Norma Desmond, Baby Jane non ha un cognome ma un aggettivo, Fedora è un mito senza tempo e quindi senza generalità) diviene estrema, il numero di serie interno al nome classifica la diva come vistoso oggetto di scena. Il passo necessario al completamento dell’aggressione all’attrice prevede quindi l’esclusione dell’elemento reale: in questo caso, all’esatto opposto del punto da cui si era partiti (la vita dell’attrice vista come un delirio cinematografico), viene eliminato il corpo della donna, facendo di S1m0ne un film sul cinema “vivo” che crea un’attrice finta.

Alla fine del percorso sembra che quegli strumenti che creano l’immagine divistica, dal punto di vista dai cineasti, siano qualcosa da eliminare. O da rendere irriconoscibili. L’impressione è che essi vogliano far uscire il doppio dallo specchio, perché è quella l’immagine della donna che il pubblico ama. Non è da considerare però solo ferocia quella che muove i registi a parlare della mercificazione della diva al cinema e nel cinema; piuttosto è da credere che, in quella meravigliosa situazione “sospesa” tra sogno e realtà che il cinema crea, l’ironia dei grandi artisti della celluloide lavori anche su questo argomento. Hanno usato la diva e hanno descritto come viene usata la diva. Hanno filmato il doppio dell’attrice e hanno creato un nuovo doppio, quello dello schermo cinematografico. Hanno parlato di memoria e di riproduzione eterna dell’evento. E dallo schermo le loro dive sorridono eternamente, portando però nello sguardo quella sensazione di morte e di “perturbante” che ogni forma d’Arte inevitabilmente reca con sé.

 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.