Daniele Vicari: “Diaz, un atto di forza” PDF 
Maurizio Ermisino   

Diaz è uno di quei film che vale una carriera, che prosciuga le energie, in cui un autore mette tutto se stesso. E poi non è più quello di prima. Diaz, che finalmente arriva sui nostri schermi come una bomba destinata doverosamente a deflagrare, è il film che nessuno voleva fare. Daniele Vicari lo ha inseguito ostinatamente, anno dopo anno, produttore dopo produttore, fino a che Domenico Procacci di Fandango, grazie anche a una co-produzione con Francia e Romania, ci ha creduto e lo ha fatto diventare realtà. Per questo diciamo che Diaz è un po’ l’Apocalypse Now di Vicari, un’odissea dopo la quale il regista di Collegiove non potrà più essere quello di prima.

Diaz è un po’ il suo Apocalypse Now, uno di quei film in cui ha messo tutte le sue forze?
Diaz è un film fatto proprio di forza, di forza fisica. È un atto di forza che ho fatto su me stesso, un film molto complesso, una macchina difficilissima da gestire, che poteva essere fatto solo con grande slancio psicofisico, oltre che morale. Questo ha fatto sì che Diaz per me sia stata un’esperienza umana straordinaria. E quello che ho pensato è stato proprio questo: regalare al pubblico un film che fosse un’esperienza. Mi piacerebbe che il pubblico entrasse nel film, si perdesse nei personaggi, si mescolasse con loro. Per poi anche rifiutarlo, discuterlo. Ma con questo dato esperienziale. Il film ti fa entrare in sala con tre-quattro dubbi, che all'uscita si trasformano in tre-quattrocento. Questo è l’unico regalo che mi sento di fare a chi vedrà questo film.

Raccontare l’iter produttivo di Diaz sarebbe impossibile. Ma qual è la cosa che l’ha colpita di più di questo percorso?
L’intera storia di questo film dimostra in maniera drammatica che in Italia esiste una forma di censura che si accompagna a una forma di autocensura mostruosa: questo fa sì che noi non siamo un paese libero. Apparentemente si tratta di una censura di mercato: esistono pochissimi soggetti in grado di produrre un film, sono legati alle televisioni, e le televisioni agiscono in maniera molto selettiva, in base a criteri che hanno troppo a che fare con la politica. È una cosa esagerata. E questo fa sì che autori e produttori sviluppino tutta una serie di accortezze per produrre le loro opere, che portano a snaturare anche idee straordinarie. E questo produce degli ectoplasmi di cui non frega niente a nessuno, in Italia e nel resto del mondo. Superare questa fase di autocensura è una delle cose importanti che dobbiamo fare noi per guardare al futuro, perché il nostro paese merita un futuro migliore.

Come ha deciso di usare quella bottiglia scagliata contro la polizia come trait d’union per tutta la storia?
Per me gli atti del processo sono stati la piscina dentro la quale mi sono tuffato per scrivere il film. Dentro questa piscina ho trovato una serie di pesci interessanti: ho trovato il dissezionamento che i p.m. hanno tentato di fare del passaggio di questo pattuglione della polizia. Ha occupato una parte importante del processo proprio perché la presunta aggressione del pattuglione è stata il pretesto per l’irruzione alla Diaz. La cosa che mi ha stupito è che da “colpiti da un copioso lancio di oggetti” si sia passati, man mano che procedevano gli interrogatori, a “lancio di oggetti e bottiglie”, poi solo di “bottiglie” e, infine, di una bottiglia. L’agente ha ammesso solo di aver sentito il rumore dei vetri e che forse quella bottiglia si è infranta sul marciapiede… Un narratore è un bastardo e una cosa così non se la può far sfuggire…

Com’è nata l’idea di usare la bottiglia come strumento per raccontare la storia da più punti di vista?
Anche questo nasce dal processo: l’avvenimento che raccontiamo è talmente complesso che i p.m. e gli avvocati sono stati costretti a fare avanti e indietro nella storia per raccogliere dei pezzi che avessero un senso. Il meccanismo narrativo che hanno usato i p.m. mi ha ricordato Rapina a mano armata di Kubrick, dove le storie raccontate ruotano tutte attorno alla corsa dei cavalli che viene mostrata più volte, e ogni volta l’orologio torna indietro per poi fare un passo in avanti nella storia. Mi è sembrato un metodo interessante di racconto, sia per disvelare aspetti diversi delle cose, sia per permettere allo spettatore un godimento della narrazione che andasse un po’ oltre alla rappresentazione pedissequa dei fatti.

Questo tipo di narrazione, che esce dalle storie e ci rientra, riprende il modo di fruire i nuovi media?
Ho messo a fuoco come raccontare Diaz comprando la Playstation. Ho comprato dei videogiochi che funzionavano esattamente così. Allora ho pensato che in questo modo potevo parlare subliminalmente con persone che vanno poco al cinema, ragazzi che sono più abituati al linguaggio dei videogiochi. A me interessa quel pubblico e non lo voglio abbandonare.

Come è riuscito a mescolare il repertorio con il girato, che nel film sembrano un tutt’uno?
Semplicemente studiando a fondo i repertori, e mettendo in scena il film con grande attenzione documentaristica. Ci siamo documentati attraverso i video, li abbiamo divisi fotogramma per fotogramma, li abbiamo stampati, abbiamo visto come le persone erano vestite, le scritte sui muri, i simboli, i manifesti. E a Bucarest abbiamo ricostruito una scenografia replicando esattamente via  Battisti, e questo ha permesso di integrare il materiale di repertorio nel film senza soluzione di continuità.

Il film si attiene ai fatti e parla di quelle poche ore alla Diaz e a Bolzaneto. Ma ci sono echi di un’atmosfera che in quei mesi durava da tempo, di poliziotti che sono arrivati a Genova caricati in maniera particolare. Lei che idea si è fatto di questo aspetto?
Nel marzo del 2001, a Napoli, sono accaduti fatti molto simili a quelli del G8: alla caserma Raniero sono state sequestrate dal giorno alla notte un sacco di persone, e alcuni poliziotti condannati per questi fatti sono stati condannati anche per la vicenda Diaz. E c’era un governo di centrosinistra. Credo che dentro le forze dell’ordine in quegli anni si siano mossi tutta una serie di meccanismi che poi tendevano ad adeguarsi al potere che di volta in volta andava formandosi in Italia. Questo ha creato un clima di grande tensione sia all’interno delle forze dell’ordine che della società. Genova è stata un po’ una prova generale di come si gestisce violentemente il dissenso. Ma questo fatto l’ho lasciato fuori dal film, perché è una ricostruzione ideologica tutta mia che non voglio influenzi lo spettatore. Se poi dagli elementi che trae dal film arriva a queste considerazioni, se ne assume la responsabilità, nel senso positivo del termine.

Finora il suo nome, e il suo successo, si legano alla realizzazione di film di genere. Diaz è qualcosa di più, è cinema civile e politico nella migliore tradizione del termine. Chi è oggi Daniele Vicari?
Diaz è una mescolanza di generi: è un film di guerra, un film sociale, un film politico, è un horror, un thriller psicologico. Perché le cose raccontate hanno molti aspetti. E mi sono sentito libero di utilizzare tutti i mezzi linguistici che il cinema mette a disposizione. Per me Diaz è lo sfondamento di un limite che fino a oggi penso di aver avuto come cineasta, legato soprattutto al percorso artistico che ti porta a elaborare una storia. Credo di aver messo a fuoco in maniera un po’ più chiara rispetto al passato certe mie caratteristiche personali e certi miei interessi. Quindi d’ora in poi posso fare delle scelte più chiare.

 


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