Dopo l'acclamato esordio del pluripremiato American Beauty, non era facile per Sam Mendes tornare alla regia affrontando le aspettative e gli inevitabili pregiudizi di critica e pubblico. Così sceglie la via del cinema di genere, omaggiando il gangster movie e rinunciando ai virtuosismi di una regia accattivante e barocca per uno stile più pulito e controllato.
La firma d'autore che accomuna questa seconda prova alla prima segna invece la struttura del film, costruita ancora intorno alla figura di un padre morto e sorretta da una voce over (quella di Michael Sullivan junior) che incornicia gli eventi e dona un senso chiuso e compiuto alla storia.
La scelta di un ritorno al cinema classico sembra dettata dalla volontà di portare alla luce temi eterni, laddove American Beauty si serviva di un'estetica postmoderna per ritrarre alcuni disagi della società contemporanea. L'aver ripreso, infatti, l'universo tematico che caratterizza il gangster movie avrebbe potuto giocare a sfavore dell'originalità del film, ma Mendes non è ingenuo e adempie a questa operazione con precisa consapevolezza di intenti.
La Chiesa, le mitragliate, il sangue, l'onore, la famiglia, il denaro rappresentano una superficie di stabilizzante déjà vu che fa scorrere la narrazione sottotono e in modo tradizionale per concentrare la forza del film sui temi che sottendono la trama: il vissuto della colpa, l'irreversibilità della scelta, gli effetti della violenza, il conflitto fra generazioni.
Tutto questo è evidente nella dilatazione dei tempi che caratterizza la descrizione degli avvenimenti nella prima parte del film e nel respiro epico che assume la seconda parte con la fuga dei due Michael Sullivan, padre e figlio.
Tom Hanks, che doveva già interpretare la figura del padre/fantasma in American Beauty, è un condannato a morte, inseguito da un surreale killer/fotografo/necrofilo assoldato dal boss/padre adottivo Rooney, interpretato da Paul Newman. Il suo essere per la morte, accentuato ancora di più dalla scelta consapevole del suo destino di gangster, lo guida nell'estremo tentativo di dare senso alla propria vita attraverso la vendetta e l'estremizzazione della colpa, che dovrebbero paradossalmente salvare il figlio.
La strada che ospita i due fuggiaschi rappresenta il luogo dell'avventura, l'estrema prova di coraggio che il padre deve affrontare per redimere se stesso e il figlio e permettergli di fare il suo ingresso nella vita normale. Ma è anche il luogo che unisce posti lontani e permette il ricongiungimento dei legami famigliari. E in questo Mendes ripercorre un tema caro al road movie da Furore (John Ford, 1940) fino a Gangster Story (Arthur Penn, 1967) o a Sugarland Express (Steven Spielberg, 1974), riuscendo ad alleggerire in qualche momento l'atmosfera di cupa tragicità da cui il film prende le mosse, attraverso i toni più chiari della fotografia e l'ironia di alcune sequenze, come quella in cui Sullivan insegna al figlio a guidare, che ci riporta alle atmosfere scanzonate di Paper Moon (Peter Bogdanovich, 1973). Una serenità che non può che richiamare un altro road movie degli ultimi tempi come Una storia vera (1999) di David Lynch, autore peraltro già citato nell'inizio di American Beauty, visivamente ispirato a quello di Velluto Blu. Se in Una storia vera la lentezza del percorso portava al riavvicinamento di un legame fraterno, qui l'anarchia della strada, pericolo e salvezza allo stesso tempo, fa maturare la complicità fra padre e figlio che per sopravvivere devono inventarsi nuove leggi e nuovi ruoli e, quindi, rinascere come famiglia.
In questa rivisitazione in chiave mitologico-psicologica del genere, Mendes sembra gettare un ponte verso quella stagione di rinascita del cinema gangster americano che fu la New Hollywood del già citato Gangster Story, de Il clan dei Barker (Roger Corman, 1970), di Gang ( Robert Altman, 1974), i quali per primi rinnovarono il genere classico connotandolo di una maggiore sensibilità alle tematiche psicologiche e sociologiche. Un cinema assimilato come referente morale, nella volontà di tracciare un nuovo percorso all'interno di un solco che ha già preso più direzioni.
L'aspetto più convincente di questa operazione e il merito di Mendes risiede nella capacità di essere incisivo attraverso il tocco di una mano lieve, concentrando la scrittura in pochi eventi carichi di senso e lasciando spazio ai silenzi. Straordinariamente simbolica è, in questo senso, la sequenza in cui Sullivan uccide Rooney e il suo seguito: con una totale assenza di rumori, in cui la battuta di Rooney: "Speravo fossi tu (a uccidermi)" è l'unica frase che conta ed è l'unica ad essere espressa.
Con questa prova così diversa dalla prima Mendes si fa più competente nel calibrare materia narrativa e scelte espressive e dimostra che un film di buona fattura, girato con mestiere, può arrivare al cuore, se non mira al capolavoro e se lascia che sia il cinema stesso a prendere la parola.
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