Il cacciatore di giganti PDF 
Marco Doddis   

C’è poco da fare: quest’epoca ha bisogno di favole. Come dimostra il cinema, fedele specchio dei tempi, la società occidentale si sta muovendo alla continua ricerca di diversivi fiabeschi, più o meno moraleggianti, edificanti, nostalgici. Negli ultimi anni Hollywood ha prodotto diverse pellicole di intrattenimento, spesso non molto originali, che hanno riportato in auge canti di Natale e giovinette alle prese con streghe cattive o mondi paralleli. Perché accade tutto ciò? Il facilone dirà che si tratta di semplici banchi di prova, per registi e majors, alle prese con la rivoluzione del 3D: in tale prospettiva non si fa altro che riadattare per l’ennesima volta vicende stranote (così da ridurre gli azzardi sul lato narrativo), cercando però l’effetto speciale di ultima generazione. E’ vero: non si tratta di una spiegazione sbagliata. Tuttavia, non si può trascurare l’altra faccia della medaglia. Una faccia che chiama in causa direttamente la dimensione dell’innocenza: che si manifesti attraverso l’animazione pura o con vari ibridi, il filone a cui ci riferiamo non esprime solo la preservazione dell’innocenza nel fanciullo (tradizionale funzione svolta dai cartoni animati “classici”), ma, spesso, si propone di stimolare il recupero di questa innocenza nell’adulto.

Anche Il cacciatore di giganti, di Bryan Singer, va visto necessariamente con due diverse tipologie di occhiali, quelli del bambino e quelli del genitore che lo accompagna: nelle due ore scarse di proiezione, ciascuno dei due vedrà il proprio film. Tuttavia, difficilmente, padre e figlio si troveranno in disaccordo sul giudizio finale. L’opera di Singer, infatti, pur solleticando appetiti “generazionalmente” differenti, sazia allo stesso modo gli spettatori, in maniera indipendente dall’età. Se fosse un pasto - proseguiamo nella metafora gastronomica -, si tratterebbe del classico pasto equilibrato: non è troppo per un bambino, non è poco per un adulto. Assenti le pietanze più saporite, i palati fini rimangono forse un po’ delusi, ma non possono negare di essersi nutriti in modo sano, regolato e bilanciato. Nella vicenda di Jack, il contadino orfano costretto, suo malgrado, a diventare eroe dopo i danni procurati da una manciata di fagioli magici, non c’è nulla di propriamente entusiasmante: la vicenda è di quelle già sentite (la fiaba Jack e il fagiolo magico ne è l’archetipo di riferimento, insieme a un pochino di Gulliver) e, fatta eccezione per l’ultima originale sequenza, non si fatica a pronosticarne il finale; gli effetti speciali sono relativamente ordinari e non cercano in continuazione l’applauso; regia e interpreti sono di qualità, ma si mettono al servizio della storia, senza mai gigioneggiare. Alla fine, la sensazione che rimane in pancia, sia agli adulti che ai piccoli, è quella del semplice divertimento, di un avventuroso frullato non certo memorabile, ma neppure stucchevole. Tornando al cibo, l’antipasto è un po’ deludente e fa temere il peggio; ma, dal momento in cui entrano in scena i fagioli magici, la mangiata diventa soddisfacente, grazie a una decisa impennata del ritmo e allo svelamento dei veri ruoli (attanziali) di ciascun personaggio. Infatti, solo dopo una buona mezz’ora di film, la platea apprende chi è l’eroe, Jack (il giovane ma già collaudato Nicholas Hoult, la cui pettinatura rimane uguale a se stessa, dall’inizio alla fine, nonostante gliene capitino di tutti i colori), qual è la sua missione (scalare una babelica pianta e portare in salvo la principessa), quale il premio (un matrimonio con la figlia del re e l’ascesa al trono), quali gli aiutanti (Elmont, il capo della guardia reale, impersonato da Ewan McGregor), quale l’oggetto magico (una misteriosa corona) e quali gli antagonisti (i giganti e il perfido Lord Roderick, il promesso sposo con i lineamenti di Stanley Tucci).

La storia si dipana attraverso tutti i luoghi e gli ambienti ricorrenti della favola avventurosa, in cui i protagonisti capitano in un mondo inospitale, popolato da creature tremende e magari cannibali: c’è la tenda del re, il castello, il mondo “altro” (Greimas lo definirebbe utopico) con la natura selvaggia, la prigione per chi è catturato e, addirittura, la cucina per chi deve essere mangiato. Alla fine, per la gioia di tutti, il bene trionfa e i protagonisti vivono felici e contenti, specie Jack, passato da una stalla a una reggia. Nel finale, con un’abile stratagemma narrativo di Singer e del suo sceneggiatore Cristopher McQuarrie (la coppia d’oro de I soliti sospetti), la favola dei fagioli diviene la protagonista dell’enunciazione, l’oggetto che si tramanda di generazione in generazione fino ad arrivare ai nostri tempi, travestita da corona. Tornando per un’ultima volta allo schema del banchetto, si potrebbe pensare che la trovata visiva del finale costituisca l’unico momento in cui si viene a creare uno sbilanciamento a favore dei gusti dell’adulto. Se l’invenzione del regista americano fosse un dolce, forse risulterebbe un po’ troppo “pesante” proprio per il bambino di turno (specie se, come possibile, non ha mai conosciuto l’ambiente in cui Singer lo trasporta). Invece, per l’adulto, rappresenterebbe un ghiotto ammiccamento, un riferimento a un ipotetico “mito della fondazione” e un suggerimento non troppo velato. Proviamo a interpretarlo, il suggerimento:  “Attenzione! Oggi, più che mai, l’uomo punta al superamento dei propri limiti fisici e, soprattutto, cognitivi. Attenzione, perché andare sempre “oltre”, sempre “più in alto”, al di là degli aerei, delle nuvole, di Baumgartner che si tuffa, può essere molto pericoloso! Ricordate la Torre di Babele? Invece, proviamo a riconsiderare i nostri limiti. Dopotutto, invece di ambizioni sfrenate, è meglio coltivare una virtù perduta, la virtù dei bambini: l’innocenza”.

 


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