TOFIFE 2007/Lo stato delle cose PDF 
Umberto Ledda   

ImageIl brusco rinnovamento del festival torinese impresso dall’arrivo di Nanni Moretti è evidente anche dal materiale che si può trovare in una delle sezioni meno universalmente appetibili fra quelle proposte quest’anno, una delle più difficili, “Lo stato delle cose”. Una sezione che pur partendo da una proposta e da un criterio di scelta di marca puramente intellettuale e accademica, e pur avendo all’interno numerosi film sperimentali e destinati solo agli addetti ai lavori, è riuscita in qualche modo a riempire le sale anche di spettatori non accreditati, e ancora più stranamente a soddisfarli con film certamente complessi e anche “deformi” rispetto allo standard, ma pieni di motivi di interesse anche non specialistico. È stato un festival che ha saputo coniugare le due anime del cinema, quella spettacolare e quella di ricerca (sintomatica la chiusura con Eastern Promises, che ben rappresenta questa complessa doppiezza e il suo superamento), senza che gli spettatori di entrambe potessero aver niente da recriminare: almeno, avessero da recriminare meno del solito. In questo contesto, “Lo stato delle cose” è una sezione nuova per l’evento torinese (ancora più della “Zona”, che in qualche modo appare una filiazione poco esplicita ma naturale di “Detours”), con un’impostazione particolare: a leggere le note con cui Emanuela Martini la presenta, emerge un contenitore mutevole, adattabile di anno in anno a contenuti e forme diverse, in modo da dare un costante aggiornamento a ciò che accade nel mondo del cinema, quali sono gli umori, quali le rotte, quale, soprattutto, lo spirito. “Lo stato delle cose”, appunto.

E il tema dominante di questa prima edizione è il cinema stesso, il mondo di chi il cinema lo fa e lo pensa. Sempre nelle note, si parla della capacità del cinema, non più arte cardinale in senso popolare (soppiantata in questo senso dalla sua stessa figlia illegittima, la televisione), di essere ancora, nonostante tutto, un universo immaginario capace di interpretare la frammentata realtà in cui viviamo. È vero: il cinema è l’unico collante simbolico per la altrimenti impossibile decodifica dell’universo concreto. Quindi, “Lo stato delle cose” si premura, con una certa ambizione e forse con una certa arroganza, di fare il punto della situazione del cinema come mappa concettuale della nostra epoca. Anzi, il cinema come mappa concettuale dell’epoca della rappresentazione, della civiltà delle immagini riprodotte, la prima epoca dove la realtà segue le sue messinscene e non viceversa. Di fatto, quindi, il cinema come mappa concettuale di sé stesso. C’è molto fra la manciata di film selezionati, e tutto è più o meno direttamente legato, oltre che al cinema, alla finzione, alla rappresentazione, al mondo dello spettacolo. Ci sono confessioni pubbliche e private di grandi registi, ci sono ritratti malinconici di personaggi schiavi dello spettacolo, ci sono denunce e demistificazioni, ci sono storie vere raccontate come fiction e fiction raccontate come storie vere, c’è il chiacchiericcio sul cinema, c’è la critica e c’è la messinscena della creatività, c’è la realtà che si intromette all’interno dello spettacolo.

Image“Lo stato delle cose” è una sezione che si può leggere in molti modi, come onanismo da selezionatori e organizzatori egocentrici in fregola semiotica, oppure come una meta-analisi sul mondo attuale capace di individuare nuove vie interpretative. Perché se la motivazione stessa di una tale selezione è quella non solo di mostrare al pubblico pellicole in sé interessanti, ma anche di tirare le somme circa temi, movimenti, intenzioni,  pulsioni sotterranee, c’è il rischio che qualcosa non funzioni nonostante la qualità dei prodotti. Seguendo “Lo stato delle cose” il dubbio rimane, anche se un po’ ozioso. Non che manchino film di una certa importanza e di sicuro interesse: in questa chiave sono più rivelatori, più onestamente utili, quei film che analizzano direttamente il mondo del cinema, che ne osservano le strategie, gli usi (e gli abusi) comunicativi, che cercano di mettere a nudo gli inghippi semiotici di un’arte che facendo rappresentazione di un mondo che della rappresentazione è schiavo si sta facendo sempre più sfuggente. Fra questi, Manufacturing Dissent di Debbie Melnyk e Rick Caine è forse il più brutto, e nello stesso tempo il più rivelatore. È l’opera di due cineasti canadesi che si mettono al seguito di Michael Moore, impegnato nei consueti tour promozionali (per il suo film, per sé stesso, per le elezioni del 2004), che promette loro interviste e incontri che non concederà. Parte come un omaggio, finisce con l’essere una denuncia alla mistificazione mooriana, delle sue bugie, dei suoi raggiri. Che Moore fosse un cialtrone era ovvio, basta guardare le aberrazioni a fin di bene che sono Fahrenheit 9/11 o Sicko: eppure i due registi adottano gli stessi metodi del regista che accusano, sia quelli dichiarati da reporter d’assalto, sia quelli più truffaldini, come le omissioni, la forzatura narrativa, la decontestualizzazione delle affermazioni del nemico. Si crea uno strano cortocircuito della menzogna, dove la realtà effettiva, di Moore e delle sue battaglie, si confonde e diventa inestricabilmente ambigua. Manufacturing Dissent è un film brutto ma testimone di una perdita di riferimento, del capogiro della consapevolezza mediatica dell’uomo di cinema, che sicuramente lo rende un oggetto da consultare. Anche The Doorman di Wayne Price è un film utile, ci aiuta a capire noi stessi, e a differenza del precedente, è anche una bella pellicola. Strano - e divertente - mockumentary sul dorato mondo dei locali cool newyorkesi, racconta di Trevor, il miglior Pr in circolazione in un mondo in cui “essere fighi” è potere e il potere è avere conoscenze, conoscere tutti, essere amico di tutti. Sembra di essere in un romanzo di Bret Easton Ellis, soprattutto quando qualcosa nel mondo di Trevor si incrina, e il suo successo si rivela artefatto, del tutto illusorio, mentre lui fa finta di nulla e lo squallore irrompe nel film senza potersi fermare. Andrebbe considerato come un film dell’orrore, e in parte lo è, muovendo sensazioni sgradevoli nello spettatore, mostrandogli una società, quella americana, e in parte anche la nostra, che sono più simili di quanto non vorremmo a quella rappresentata. Qualcosa in comune con The Doorman lo possiede Celluloid #1 di Steve Staso, che di questo stesso vuoto e di questa stessa illusione si nutre, raccontando la storia di un regista in declino che cerca di immortalare il deserto degli Stati Uniti della prima decade del ventunesimo secolo utilizzando una starlette oca, un’altra schiava del nulla come il Trevor del film di Wayne Price.

ImageC’è poi una manciata di pellicole che osservano il cinema attraverso lo sguardo, le parole e le azioni di chi davvero fa il cinema, pellicole più dirette, dove i significati e le riflessioni scaturiscono più dall’oggetto della messinscena che non dal gesto del filmarlo. Lynch è un documentario girato da un amico di vecchia data (che si nasconde sotto il nome di blackANDwhite) del regista, che gli si è piazzato in casa per un paio di anni, munito di telecamera, in modo da girare su Lynch un documentario come possono essere quelli naturalistici sui leoni della savana. Minima interazione con l’oggetto della ricerca, che viene lasciato agire con la più grande spontaneità possibile in presenza di telecamera. Viene fuori, come si poteva intuire, un David Lynch diverso da quello dei suoi film, vengono fuori le ossessioni private, le piccole follie; ma a sorpresa sono follie innocue, buone, quasi delicate. Senza contare che l’immagine del regista che si filma da solo e fa le smorfie parlando come se fosse un suo personaggio è di una strana tenerezza e da sola vale il film. Simile nell’aspetto (un regista che parla del cinema e di sé), ma diverso nell’approccio è Morceaux de conversations avec Jean-Luc Godard di Alain Fleischer: in questo caso non è un regista-uomo che vive e attraverso la sua vita esprime elementi della sua profondità. È un regista-regista che parla sapendo di parlare e di essere filmato. La realtà, e la sincerità, rimangono in questo modo un sogno, anche se ci si consola ascoltando le conversazioni, e piccoli gesti di prossemica che svelano molto più delle parole.

Di tutt’altro tipo il film di Julien Temple. Joe Strummer – The Future Is Unwritten lavora principalmente sul materiale e sull’informazione, sul documento prima che sulla ricerca, e sull’elaborazione, come già aveva fatto nei lavori (soprattutto nel secondo) sui Sex Pistols, l’altra grande band (e l’altra grande idea poetica) del punk. Quindi un ritratto che emerge dalla realtà (lasciando al regista, come strumenti espressivi, la scelta del materiale e l’ordine del montaggio), dalle intervista di chi è entrato in contatto con lui, da fotografie, da disegni, da dichiarazioni, da filmati dello stesso Strummer. Simile nel tema è Der Rote Elvis di Leopold Grun, film tutto concentrato su un protagonista che parla da solo: Dean Reed, cantante americano di Rock ‘n’ Roll, attore e contemporaneamente socialista battagliero in piena guerra fredda. Personaggio di estremo carisma, idolatrato in Unione Sovietica e in Sudamerica per le sue canzoni e i suoi testi politici, dotato di un certo fascino messianico nel perseguire la sua missione, venne trovato morto a Berlino Est, nel 1986. Di fronte ad un personaggio così imponente la messinscena si tira indietro, si limita a mostrare: una strategia giusta, ma che non permette di ricreare la grandezza del suo soggetto, che viene solo citata e dichiarata. Problema opposto per Enfances, che fa attraverso la finzione il lavoro che dovrebbe fare un documentario biografico su un artista, cercando di analizzare l’importanza del vissuto e della psiche quotidiana ed episodica rispetto al lavoro di creazione. Lo fa con una strategia stimolante ma un po’ troppo didattica, sempliciotta: raccontare le infanzie di sette grandi registi, da Tati ad Hitchcock, mettendo in scena quello scarto, quella piccola epifania che trasforma una persona in un creatore, in un demiurgo. Sempre un documentario incentrato sulle persone di spettacolo, ma questa volta di impianto più complesso nel suo focalizzare su due menti creative lo sguardo, è Never Apologize – A personal Visit With Lindsay Anderson di Mike Kaplan, dove è Malcom Mc Dowell, attore e quindi uomo di cinema, che omaggia un altro uomo di cinema, il regista di If…, imprevedibile protagonista del cinema inglese negli anni ’60, e lo fa attraverso il teatro (prima di diventare anche un film, il progetto era uno spettacolo-monologo di McDowell), in una moltiplicazione mediatica che per una volta prova a chiarire anziché disperdere.

ImageDisquisire di cinema sembra spesso essere la chiave interpretativa della sezione “Lo stato delle cose”: ecco allora Le retour des cinephiles, che mette in scena il parlare monotematico e vorticoso sul cinema, l’ipercriticismo autoconcluso di un gruppo di persone. Anche in questo caso, un film non riuscito ma utile a definire qualcosa dei rapporti fra film e spettatori, in quanto riporta alla mente alcuni semplici assiomi del parlare di cinema. Ad esempio, che la critica cinefila è spesso più bella da scrivere e discutere che non da leggere, che nella riflessione sul cinema si trova molto di più dell’anima di chi pensa che non dell’oggetto pensato. Piccole cose probabilmente inalienabili al pensiero appassionato sul cinema, ma che è sempre meglio tenere presenti. E infine, dopo una pellicola che è forse la più chiusa nel labirinto ombelicale del pensiero cinematografico, c’è ancora un film che rappresenta il tentativo opposto, di un cinema che cerca di uscire dall’autocontemplazione per guardare e interagire con la realtà: The Tree of Ghibet di Amedeo D’Adamo e Nevina Satta. Il film è parte del progetto della Traveling Film Scool, che in giro per il mondo, nei suoi angoli più poveri, insegna cinema e teatro ai ragazzi. Un film girato nelle strade del Camerun, una storia feroce e reale di bambini di strada e di vita nella capitale Douala, realizzato con l’effettiva partecipazione, dietro la macchina da presa, dei ragazzi: senza una sceneggiatura fissa ma soltanto con una traccia improvvisata giorno per giorno, The Tree of Ghibet è un tentativo estremo e che suscita ottimismo su un cinema che possa trovare una via onesta, non mistificante né pietista per raggiungere la realtà, cosciente della propria finzionalità ma orgoglioso delle sue radici umane, e convinto della sua capacità di influire sul mondo. La speranza de “Lo stato delle cose” non sta forse soltanto qui, ma di sicuro sta anche qui.

 


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