La capa gira, aspettando Godot PDF 
Gianmarco Zanrè   

ImageRicordo, quando ero bambino, la meraviglia che immaginavo si dipingesse sul mio volto di fronte ai fulmini blu scaturiti dalle mani del vecchio Egg Shen, narratore di quel Grosso guaio a Chinatown, che torna a solleticare la mia immaginazione ancora oggi, a distanza di almeno quindici anni dalla prima visione. Il vecchio stregone sussurrava con un sorriso sornione dipinto sul viso: “È proprio così che tutto comincia: dal molto piccolo”. E, ancora oggi, mi stupisco di quanto grande sia la potenza del media cinematografico: dal fantasy anni Ottanta firmato Carpenter si traccia una linea ideale verso la periferia di Bari dell'inizio del nuovo millennio, in un Italia ancora senza Euro che rimbalza tra sbarchi di profughi albanesi e macchinette di videopoker. Il molto piccolo, per l'appunto.

Nella pellicola firmata da Alessandro Piva tutto è a misura di questa dimensione: lasciando da parte, almeno per il momento, il discorso legato alla produzione e al tentativo di lanciare opere “indipendenti” - o dalle ambizioni di “indipendenti” - sul sempre poco ricettivo mercato italiano, l'aggettivo piccolo pare quanto mai appropriato e calzante per tutto quello che definisce pellicola, personaggi e geografia sociale delle loro stesse esistenze. Lo stesso sociale, sia esso inteso come vissuto, o come, ancor meglio, vivendi, si inserisce perfettamente nella dimensione della miccia dalla quale scaturisce la bomba: la sottocultura delle periferie come prima definizione dei fenomeni troppo spesso analizzati soltanto da un punto di vista macroscopico, almeno rispetto ad un paese che spesso cataloga i problemi come spettacolarizzazioni di eventi sempre dipinti come lontani, stranieri, altrui, anche quando popolano i cortili di ogni città, i confini invisibili dei quartieri, i sogni di gloria di ragazzi che pensano di non poter chiedere altro, o più semplicemente, non chiedono, alla vita. Su questi binari viaggiano i treni dei profughi albanesi reclutati dai piccoli malavitosi per buttare droga da un finestrino che non si apre, o le velleità di due adolescenti che sognano il grande colpo con il ritrovamento di un pacco che potrebbe condannarli a morte, non fosse che chi li ritrova è come loro, solo qualche anno più vecchio. Ancor più vecchio è Sabino, che cela angosce e futuro dietro il finto armadio che nasconde le macchinette illegali che inducono mogli arrabbiate a recuperare a tarda notte mariti scialacquatori di stipendi, e che di fronte ad esplosioni di vita, e polvere da sparo, si sente perduto come chi non regge l'alcol e si ritrova a un tavolo di ubriaconi, e finisce che “la capa gira”. E la capa gira anche per il Carrarmato, nonostante mai ammetterà che è così, di fronte alla guerra che “secessionisti” di fuori Bari gli muovono, al fatto che possano e vogliano prendere il suo posto, o al piccolo agente della municipale cui si rivolge affinchè gli sia tolta una multa: gira perché il mondo è grande, troppo per gli occhi annebbiati di chi non vuole accettare i propri orizzonti. Di orizzonti si parla, si ride, si piange, malinconicamente, di fronte all'umanità spiccata del “piccolo” lavoro di Piva: orizzonti sociali, prima che geografici, che spesso tracciano una linea, una strada, una direttrice nelle vite “di frontiera”, quasi western, che la periferia offre - o, al contrario, sottrae - a chi la abita. E non vi sono giustificazioni, o sensazionalismi, dietro l'occhio della macchina da presa. Non ci sono storie di grandi crimini o criminali, o di eroici oppositori della malavita. Tutto è ristretto al punto d'origine, il big bang di una società il cui sbandamento è in fieri, e che perde i suoi protagonisti nel loro non essere protagonisti, nell'attesa, fra una rapina e una lite, una scopata fugace o uno spinello, di quel Godot che in un altro luogo, in un altro tempo, ha definito i limiti sociali dell'uomo.

ImageEppure, in quest'attesa che attesa non è, perché un Godot, fino a certe zone della periferia, non giungerà mai, esiste un momento magico in cui anche il piccolo si piega alla meraviglia: la barzelletta raccontata da Minuicchio (un ottimo Dino Abbrescia) nel bar “chiuso” alla moglie in cerca del marito perso nel vortice del videopoker è una piccola perla capace di cristallizzare l'attimo e il luogo, portando la voce del molto piccolo alla grandezza neppure immaginata di quel Godot che mai arriverà, perché da quelle parti prima passano gli agenti, e se rimane qualcosa le bande avversarie, o viceversa. La donna, piegata dall'età, dalla realtà, dai vizi del marito e da una famiglia che li aspetta una volta rincasati, è come rapita, portata dall'origine al tutto in un istante, prima di tornare, torva, al ruolo che è disegnato per lei dal destino. Senza retorica o pretese, Piva trasporta sulla pellicola un microcosmo che è parente stretto non solo di Bari, ma dell'Italia intera e, probabilmente, con modalità e Godot differenti, di numerosi paesi in tutto il mondo. Senza stupire, o rimanere stupiti. Perché il nostro mondo è anche questo, e il primo passo per il progresso, più che indignazione e occhi sgranati, sta, come per ogni dipendenza, nell'accettazione dei fatti: una barzelletta capace di fare quello che la morale non può. Capace di mostrare quello che il Carrarmato, Sabino, e i loro giovani corrieri sono, desiderano, vivono per le strade senza giudicarli, e guardando, almeno un istante, a quello che potrebbero essere, un giorno o l'altro.
 
Tutto parte da qui. E questo è il segreto di un buon cinema, anche quando mezzi o qualità non possono certo essere paragonati ai lavori patinati ed impeccabili presentati nei grandi festival. Del resto, Egg Shen, da vecchio, saggio stregone bene lo sapeva, e cercava di spiegarlo fra fulmini blu, più di un ventennio fa: “È proprio così che tutto comincia. Dal molto piccolo”.

TITOLO ORIGINALE: Lacapagira; REGIA: Alessandro Piva; SCENEGGIATURA: Andrea Piva; FOTOGRAFIA: Gian Enrico Bianchi; MONTAGGIO: Thomas Woschitz; MUSICA: Ivan Iusco; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 1999; DURATA: 70 min.

 


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