Supertoys e A.I.: due mondi a confronto (*) PDF 
di Mauro Brondi   

Quando penso a quanta strada abbiamo fatto, Monica...
Se l'accordo verrà concluso, io... noi... immediatamente, avremo tre milioni di sterline in più... Ci trasferiremo in una casa più bella, venderemo David e Teddy e prenderemo i sintetici del nuovo tipo... ".

Brian W. Aldiss nei suoi racconti dei Supertoys non esita a descrivere i personaggi umani come mediocri figure arriviste e depresse. Lo stesso coraggio non lo dimostra Spielberg, rappresentando una madre estremamente sensibile e, in fin dei conti, affettuosa nei confronti del bambino artificiale.

Gli umani in Aldiss sono ottusi, cinici, annoiati. Questa dimensione (che probabilmente sarebbe stata presa in considerazione da Kubrick) è naturalmente cancellata in Spielberg. L'uomo in A.I. ha ancora dei principi morali, sa imparare e insegnare, sa commuoversi e stupirsi. Nulla di tutto questo in Aldiss, che dipinge un'umanità fredda e priva di valori a fronte di una macchina (David) che vuole amare e che soffre per un amore non corrisposto. Il dramma di David in Aldiss è dunque il dramma di una macchina che cerca l'amore ma non può trovarlo per una fondamentale ragione: l'uomo non ama l'uomo, può essere in grado di amare una macchina? (nel racconto I Supertoys nella nuova stagione, Aldiss descrive il marito Henry tormentato dai sensi di colpa per non aver amato la moglie ormai morta preferendo la carriera, l'egoismo e l'avidità). Spielberg, eliminando tutto questo dal film, corre un grosso rischio: eliminare il centro drammatico della storia.

Eppure la prima parte del film è certamente uno dei momenti di cinema più intensi degli ultimi anni. L'atmosfera leggermente onirica ottenuta grazie ad una fotografia (di Janusz Kaminski) che sa creare una luce quasi morente ma accecante ci trasporta in una fantascienza essenziale. Anche i movimenti di macchina, l'uso dei primi piani e il montaggio paziente concorrono a creare una sensazione e un ritmo degno dell'atmosfera di suspense presente nei racconti di Aldiss.

E il dramma di David, legato al dramma dei genitori che sperano in un risveglio dal coma del loro unico e vero figlio, in certi momenti si intensifica, attraverso sguardi e dialoghi scarni e efficaci. La madre, che si stupisce e si commuove per i tentativi di David di farsi amare, è una figura estremamente interessante che non deve essere slegata dall'immaginario del cinema spielberghiano. Inoltre, se è netta la distanza da Aldiss, le implicazioni filosofiche, unite all'intensità emozionale che il film riesce a costruire, devono essere considerate come un grande ritorno di Spielberg alla fantascienza d'autore.

David nel suo non capire, nella sua semi-consapevolezza robotica commuove e spaventa, attira su di sé tutto il fascino di un automa come l'essere macchina Hel di Metropolis, in una parola: ipnotizza. Le immagini che tendono a moltiplicare lo sguardo e il volto di David tendono a evidenziare una complessità della macchina, evidenziando le mille sfaccettature che la macchina (compresa la macchina cinema?) ha raggiunto.

I primi cinquanta minuti di film riescono a non far rimpiangere l'essenzialità e la genialità dello scrittore americano.

Molte perplessità arrivano nel momento in cui David lascia l'ambiente domestico per avventurarsi nel mondo esterno alla ricerca della Fata Turchina. Spielberg racconta il tentativo di David di diventare un bambino vero (il ritorno di un pinocchio cibernetico) attraverso elementi visivi piuttosto banali e fin troppo elaborati. Nella casa regnava la suspense e l'attesa, nel mondo dei robot e della "fiera della carne" regna la confusione, anche sonora, e il film perde in efficacia; da un dramma psicologico e interiore si passa ad un'avventura classica, tutta esteriore, dell'eroe alla ricerca del suo oggetto. Per completare la sua missione l'eroe affronta diversi ostacoli in compagnia di aiutanti (il robot-gigolo Joe e Teddy) fino alla meta del suo viaggio (trovare la Fata Turchina).

La parte centrale del film è certamente la più prevedibile e la meno efficace: non solo la sceneggiatura diventa piatta e banale, ma anche la messa in scena perde in essenzialità proponendo particolari fastidiosamente barocchi (ad esempio le moto dei cacciatori di robot rivestite da un'armatura da pescecane). Anche la fotografia nella parte centrale del film risulta banalmente luminosa e piatta.

Spielberg riesce però magistralmente a recuperare il filo nella parte finale del film. Nel racconto di Aldiss, David giunge ad una sorta di "corto circuito interiore" nel momento in cui si trova davanti a altri mille David tutti uguali:

"David fece un passo avanti e fissò a occhi sgranati il contenuto dell'ambiente. Davanti a lui c'erano mille David. Tutti uguali. Tutti vestiti in modo identico. Tutti con lo sguardo identicamente attento. Tutti in silenzio, gli occhi fissi dinanzi a sè. Mille repliche di se stesso, senza vita. Per la prima volta, David comprese davvero la realtà. Ecco cos'era lui. Un prodotto. Solo un prodotto. Spalancò la bocca e s'immobilizzò; non riusciva più a muoversi. Il giroscopio cessò di ruotare dentro di lui. Crollò a terra, all'indietro".

Spielberg ha comprato per il suo film i diritti di un'unica frase "davanti a lui c'erano mille David" e possiamo ben capire il motivo. La sequenza in cui David si trova davanti ai suoi mille gemelli è una delle più significative del film e a partire da quelle immagini il film ritrova il fascino che aveva perduto nella parte centrale.

David sprofonda in una sorta di depressione robotica estremamente suggestiva: non perde i sensi come in Aldiss. Spielberg elabora una situazione più interessante e complessa in cui il robot, l'essere-macchina David medita il suicidio. La scelta di David di lasciarsi cadere dal grattacielo della Cybertronics (la casa costruttrice di David) per sprofondare negli abissi della New York allagata porta a considerare alcune domande: la scelta di David è una scelta consapevole? David elabora effettivamente una propria coscienza che lo spinge al suicidio? La storia del burattino che vuole diventare vero non è forse un pretesto per presentare una disperazione più generale? La caduta di David dal palazzo di New York ricorda in modo drammatico la caduta del bambino di Germania anno zero di Rossellini: in entrambi i casi c'è la presa di coscienza per una situazione vissuta con consapevolezza e tragedia. Ecco allora che David compie realmente con quel gesto, raggiunta la consapevolezza, il suo passo verso la nascita "vera" e non a caso l'acqua lo accoglie come il liquido amniotico: in questo liquido amniotico David troverà la Fata Turchina. In queste sequenza il film torna a essere penetrante e profondo, non scontato. Anche dal punto di vista visivo Spielberg insiste su una opacità dell'immagine (soprattutto dell'acqua) che avvolge lo spettatore in un viaggio quasi catartico.

E ancora gli alieni, nel finale del film, costituiscono una delle grandi immagini del nuovo cinema di fantascienza: dopo Incontri ravvicinati del terzo tipo, Spielberg ritorna a considerare la presenza extraterreste come una comunità di intelligenza superiore. Attraverso le possibilità dell'immagine digitale Spielberg elabora una soluzione visiva suggestiva come la catena degli alieni che visualizzano interiormente la storia di David (per lo spettatore questa visualizzazione suona un po' come un titolo di coda che ripercorre la storia visiva del film). Attraverso le immagini, gli alieni possono conoscere il mondo (umano?) del passato, tornare indietro di oltre duemila anni e recuperare la vita.

Una speranza nella quale forse la fantascienza può ancora credere, in un momento in cui la realtà sembra essere tragicamente più angosciante.

(*) in questo breve parallelo tra l'opera di Aldiss e il film di Spielberg non si sono considerati, volontariamente, i rapporti tra Aldiss e Kubrick, alla base del progetto, e i vari momenti di lavorazione che il film ha avuto nel corso del tempo; sono stati presi in considerazione esclusivamente i rapporti tra le opere compiute, tra quella che è la realtà letteraria e quella che è la realtà cinematografica.

 


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