Persona: breve analisi di un film PDF 
Andrea Chimento   

Fate silenzio, inizia il film. Due luci si accendono, una pellicola scorre in un piccolo proiettore: in rapida successione si sovrappongono un pene (ricordate cosa diceva Tyler Durden?) e disegni animati; un ragno e un agnello sacrificale; immagini slapstick e chiodi che si piantano nelle mani di (?) Cristo. Forse è la dimostrazione che, a più di 40 anni di distanza, le teorie Ejzensteniane sulla messa in pratica del montaggio delle attrazioni sono ancora valide, o forse Bergman ha voluto mostrare frammenti di contenuto che hanno caratterizzato la sua filmografia precedente: il sesso, la religione, il sacrificio, la passione per gli albori del cinema (come racconta nella sua autobiografia: La lanterna magica), il ragno-rappresentazione di Dio in Come in uno specchio e, per ultima, la neve che rimanda a Luci d’inverno e alla sua Svezia che non ha mai voluto lasciare. In seguito vediamo in una stanza-limbo alcuni corpi (morti?), un bambino si alza dal letto, accarezza un enorme schermo che riproduce il volto di una donna. Questo volto inizia a sfocarsi, ne compare un altro (di un’altra donna) e lui continua ad accarezzarlo.

Questo straordinario incipit, uno dei migliori di sempre, rimane profondamente enigmatico per il momento. Sicuramente, però, Bergman vuole suggerirci già dalle primissime immagini che stiamo assistendo ad una finzione, un film che avrà probabilmente risvolti metacinematografici e, forse, che quei corpi (compreso il bambino) sono personaggi che non hanno trovato spazio all’interno della storia. Dopo i titoli di testa inizia la narrazione vera e propria: l’infermiera Alma (Bibi Andersson) riceve l’incarico di accudire l’attrice Elisabeth (Liv Ullmann) che, mentre recitava L’Elettra, smise improvvisamente di parlare. Da quel momento si è chiusa in un mutismo assoluto: Alma cercherà di scoprirne le ragioni e farle tornare la parola. Inizialmente però, più di Alma, è la dottoressa che sembra comprendere il suo silenzio: capisce che il fine di quell’estremo gesto è la volontà di smettere di sembrare e iniziare ad essere. Senza parlare si evita di mentire, si perdono quelle maschere che hanno accompagnato Elisabeth per tutta la vita.

Come in Beckett le parole sono futili, il silenzio è l’unica verità possibile.  Ma così Bergman sembra aprire ad un paradosso: stare in silenzio non è che un’ulteriore maschera, la vita stessa comporta obbligatoriamente la rappresentazione di un ruolo. Si può essere davvero se stessi? Alma e Elisabeth (i volti che quel bambino accarezzava sullo schermo), su consiglio della dottoressa, vanno a passare del tempo su un’isola, nella speranza che questo porti giovamento all’attrice. E’ curioso che il regista scelga, per la prima volta, di girare sull’isola di Faro, quello stesso luogo dove Bergman ha deciso di passare (quasi isolato) gli ultimi decenni della sua vita. Alma, una strepitosa Bibi Andersson, e Elisabeth, Liv Ullmann in una delle migliori interpretazioni della storia del cinema, diventano sempre più intime: l’infermiera descrive alla grande attrice tutta la sua vita, le sue ossessioni, il suo amore per Mark. Arriva persino a raccontarle di essere rimasta incinta, in seguito ad un rapporto con dei ragazzini sconosciuti, e di avere avuto un aborto naturale (?).

La natura metacinematografica del racconto viene comunque sempre sottolineata da Bergman con sguardi in macchina e, in un momento memorabile, Elisabeth che fotografa il pubblico.Questo processo trova il suo culmine a metà del film: la pellicola si brucia, è necessario cambiarla; l’immagine rimane sfuocata per alcuni secondi prima di riprendere la sua nitidezza naturale. Il film riprende, ma ogni cosa sembra essere cambiata. Il bel rapporto che si era instaurato tra le due donne sembra finire quando l’infermiera apre alcune lettere scritte dall’attrice per la dottoressa: vi trova tutto ciò che aveva raccontato ad Elisabeth in quei giorni, compreso l’episodio dell’aborto. Le due litigano e, dopo un duro scontro, Elisabeth corre sulla riva del mare con Alma, dietro, che la insegue per chiederle perdono. La sera Alma entra in camera di Elisabeth e la osserva dormire: questo momento, spiega Bergman, è il punto centrale del film: «Alma ha paura, la guarda timidamente, ed improvvisamente si scambiano le rispettive personalità. (...) Alma prova la condizione dell'anima dell'altra donna, per assurdo. Incontra la signora Vogler, che ora è diventata Alma e parla con la sua voce. E' una scena-specchio». Nella sequenza successiva (forse un ricordo dell’attrice) Alma incontra il marito di Elisabeth, che vede in lei sua moglie. Grazie ad una magnifica costruzione dell’inquadratura Bergman ci mostra il volto di Liv Ullmann in primo piano e, dietro di lei, Bibi Andersson e Gunnar Bjornstrand che si comportano come una normale coppia sposata.

Questo viaggio all’interno dell’inconscio femminile sembra la base (il confronto è d’obbligo) degli ultimi film di David Lynch. Il rapporto che si instaura tra Alma ed Elisabeth è molto simile a quello tra Diane e Camille in Mulholland Drive (paragone di cui ha fatto un ottimo saggio Luigi Porto): la duplicità, le diverse dimensioni, il sogno, un rapporto di strettissima intimità... che sfociano (come anche in INLAND EMPIRE) in una profonda riflessione metacinematografica sulla natura della finzione (come quello di Liv Ulmann il personaggio di Naomi Watts, in Mulholland Drive, è un’attrice). Il tema del doppio e dello scambio di personalità trova il suo estremo nella sequenza successiva, in assoluto, a mio parere, una delle più importanti della seconda metà del ‘900 cinematografico.

Bergman ci mostra per due volte lo stesso dialogo tra le due protagoniste: prima mostrandoci il volto di Elisabeth, poi quello di Alma. L’infermiera ha ormai capito il segreto dell’attrice: ella ha avuto un bambino che non desiderava, che voleva nascesse morto; nonostante il suo disprezzo per lui, questi ama profondamente sua madre e lei non riesce a ricambiare questo suo amore. In realtà questo non è un dialogo, ma un monologo, non è un colloquio, ma un soliloquio; è solo Alma a parlare mentre Elisabeth la sta a sentire. Entrambe hanno rifiutato il proprio figlio: Alma con l’aborto, Elisabeth con il desiderio che suo figlio non fosse mai nato.

Questo parallelismo porta all’unità estrema tra le due, raffigurata dalla (memorabile, geniale, strabiliante) fusione tra i due volti. Sono molto interessanti le parole di Bergman quando racconta di aver mostrato quest’immagine (doppia) alle due attrici: «Quando ricevetti la copia del filmato dal laboratorio, chiesi a Liv ed a Bibi di venire nella stanza del montaggio. Bibi esclamò, sorpresa: «Ma Liv, sembri così strana!». E Liv disse: «No, se tu, Bibi.. sembri davvero strana!». Spontaneamente negarono la loro metà di quel viso.». Dopo questa sequenza vediamo Elisabeth che succhia il sangue di Alma, e Alma che prende a schiaffi Elisabeth. Facendosi del male, l’una contro l’altra, è come se facessero del male a se stesse per le scelte che hanno fatto. In seguito (in una scena forse onirica) Alma riesce a far dire spontaneamente a Elisabeth una parola: «Nulla». Una parola che sembra sottolineare, ancora una volta, l’inutilità del parlare. Dopo che Alma parte dall’isola e Elisabeth (morta?) viene ripresa da una troupe (ancora la finzione filmica), Bergman ci mostra ancora il bambino dell’inizio che accarezza quei due volti sovrapposti sullo schermo. Ora, però, sappiamo (forse) cosa rappresenta: il figlio (morto, mai nato, rifiutato) che mostra affetto per quelle madri che non l’hanno mai voluto. La pellicola esce dal proiettore, le luci si spengono...la finzione è finita. Persona, uno dei più grandi film della seconda parte del secolo, è finito. Ora potreste parlare, ma rimanete ancora per qualche momento in silenzio. Riflettete su quello che avete visto. Senza sussurri.  Senza grida.  Rimanete in silenzio.

 


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