Confrontarsi con una grande capolavoro del cinema di tutti i tempi, si sa, è sempre operazione assai azzardata. Non lo diciamo in nome di una certa convinzione purista che vedrebbe i film, soprattutto le opere d’arte indiscusse, come mete inarrivabili e intoccabili. Lo diciamo, piuttosto, perché tanto più la pellicola originaria rasenta la perfezione, tanto più è difficile creare e produrre un’idea in grado di reggerne il confronto, di giustificare un’operazione palesemente ispirata a qualcosa non solo di già esistente, ma pure di indimenticabile.
A poco serve che Nine dichiari la propria discendenza dal musical teatrale che a sua volta si ispirava ad 8½ di Fellini, perché è chiaro che il confronto, se non altro per l’utilizzo del medesimo mezzo, si gioca proprio sul terreno della pellicola del genio riminese. E in fondo l’idea che preesiste all’operazione di Marshall, e che per certi versi egli eredita dall’opera teatrale, ben interpreta suggestioni già presenti nel film di Fellini. Almeno sulla carta, infatti, è trovata di non poco conto utilizzare i codici del musical seguendo la formula innovativa ed eccellente di Chicago per dare corpo e coreografia all’immaginario e all’immaginazione, ai sogni e agli incubi, al conscio e all’inconscio del regista in crisi di felliniana memoria. Peccato, però, che in Nine l’alternarsi tra le “scene parlate” e i pezzi cantati e ballati – che continuano a corrispondere come in Chicago ai pensieri del protagonista e sono pertanto le tappe del suo e del nostro viaggio visionario – è lontano diverse miglia dal risultato del precedente musical di Marshall. Se lì, infatti, i numeri da vaudeville non costituivano mera illustrazione dei sentimenti dei protagonisti come nel musical classico, ma erano totalmente funzionali all’evoluzione narrativa del film, in Nine il regista sembrerebbe provare a replicare l’operazione ma senza la stessa forza e coesione. Dopo le prime sequenze, infatti, l’immissione dei numeri cantati e ballati, usati come dimostrazione visiva e uditiva del punto di vista del protagonista, diventa meccanica, quasi programmatica, negando totalmente quella fluidità che invece Fellini aveva regalato al suo 8½. La soglia tra realtà e immaginazione si fa involontariamente inassimilabile e Nine perde in questo modo proprio la più grande sfida, riducendo a meccanismo automatico e ripetitivo quel movimento senza scatti e senza salti che Fellini era stato in grado di confezionare con innegabile maestria. Se a ciò si aggiunge poi un certo (brutto) gusto per lo stereotipo italiano, legato soprattutto a ciò che girò intorno la mitica figura del regista riminese da cui il film sembra eccessivamente attingere (vedi la cattiva fama del moralismo cattolico), il rischio che tutto naufraghi è altissimo. Eppure, nonostante la sceneggiatura sia spesso didascalica – riducendo per esempio il confronto tra Nicole Kidman, musa indiscussa del genio creativo del protagonista, a dialoghi fin troppo vicini alla soap opera –, l’operazione di Marshall non è poi totalmente da buttar via.
L’interpretazione di Daniel Day-Lewis, che ha dovuto confrontarsi con quella superba di Marcello Mastroianni, convince non poco, pregiandosi di una postura dimessa e di sorrisi più che suggestivi. Convincenti, poi, certi stravolgimenti della sceneggiatura iniziale, che vedono la migliore amica della moglie di Guido Contini trasformarsi in una bravissima Judi Dench nel ruolo della costumista, alleata e consigliera del protagonista. O ancora la bella sequenza del provino della moglie che in Nine non è solo donna tradita (in 8½ c’era più gusto per il dato implicito, qui è tutto fin troppo spiegato), ma pure attrice frustrata, vittima del successo del marito. Così, tra vere e proprie citazioni dell’originale (l’episodio di Saraghina) e libertà maggiori, per mano di un corposo cast di divi del nostro tempo, Nine raggiunge almeno l’obiettivo dell’intrattenimento puro, affogando nel colore il rimpianto per quel bianco e nero impeccabile di 8½. Ma se la nostalgia per il capolavoro felliniano si fa sentire non è perché Nine abbia cercato invano di misurarcisi, sfilacciando la portata della vicenda esistenziale e artistica di un uomo in crisi e riducendo l’Italia degli anni Sessanta a cartolina. A far salire la delusione è la sensazione che l’intuizione linguistica di Marshall, se ben applicata, sarebbe potuta essere una vera e propria lezione di cinema.
TITOLO ORIGINALE: Nine; REGIA: Rob Marshall; SCENEGGIATURA: Anthony Minghella, Tucker Tooley; FOTOGRAFIA: Dion Beebe; MONTAGGIO: Claire Simpson, Wyatt Smith; MUSICA: Maury Yeston, Matt Sullivan; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2009; DURATA: 110 min.
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