19° Festival Internazionale di Film con Tematiche Omosessuali - Panoramica PDF 
di Alessandro Mello   

Come ogni anno, questo Festival è inaugurato dalle bandiere italiane, dalle croci celtiche, e dalle teste rasate dei naziskin che stazionano davanti alla hall del Teatro Nuovo. La polizia divide i naziskin dal pubblico e dagli ospiti del Festival. Troviamo anche un furgone dell'Ulivo con musica a tutto volume e volontari che distribuiscono volantini in cerca di voti gay, ma la polizia non divide gli ulivisti dal pubblico e dagli ospiti del Festival.
Nel corso della manifestazione, abbiamo anche notato incursioni dei Radicali cum banchetto per raccogliere firme su inseminazioni artificiali e affini.

Intendiamoci: un Festival che smuove la politica è un Festival importante. Un Festival che organizza otto feste, una per ogni giorno, è un Festival attivo sul territorio. Anni fa, a Torino, c'erano stranieri solo nei giorni del Festival: il Festival è un pezzo di storia della città, è un happening.

Appurato questo, e cioè che il Festival maggiore di una città che pretende di essere la capitale del cinema italiano tratta tematiche omosessuali, passiamo alla serata d'inaugurazione.

Fuori concorso, due successi d'oltreoceano, futuri successi qui in Italia: Party Monster (USA 2003), di Fenton Bailey e Randy Barbato, tratto dal romanzo culto Disco Bloodbath di James St. James, con il pessimo Macauley Culkin nel suo primo ruolo da adulto, l'ottimo Seth Green di Buffy The Vampyre Slayer, un'insipida Chloe Sevigny e la comparsata di un innocuo Marilyn Manson. Un filmaccio dall'insopportabile afrore underground, scritto pessimamente, e prodotto dal team dietro Boys Don't Cry. Sicuramente farà parlare di sé, non quanto in America, ma a sufficienza per lasciare il segno anche nelle nostre sale. Non è in nessun modo un buon film e Culkin dev'esser stato evidentemente traumatizzato dalla sua relazione con Micheal Jackson, se ritiene adeguata la sua interpretazione di un omosessuale, ma in termini di selezione e spettacolo, è un colpaccio. A questa proiezione, peraltro piuttosto affollata, e segnata dalla presenza dell'assessore Alfieri che ha ripetuto il suo speech elettorale su TorinoCapitaleDelCinema, è seguita la visione dell'incredibile D.E.B.S. (USA 2004) di Angela Robinson, che definire divertente, intelligente, irresistibile è poco. Angela Robinson è un genio, e presto tutti se ne accorgeranno. Il suo film non è queer in modo compiaciuto, e la storia d'amore tra l'eroina e l'anti-eroina è depurata da ogni retorica, ogni tentativo didascalico. È una action-comedy di alto livello, distribuita da una major (Sony), con un cast di rara simpatia e bellezza, in cui figura la supermodel Devon Aoki, testimonial Chanel e pepata uber-babe in 2 Fast 2 Furious.

Indubbiamente un modo vincente di inaugurare un Festival a tema. Per l'occasione, è stata anche presentata la giuria del concorso, in cui figurava Moritz De Hadeln, l'ingombrante star mediatica protagonista di mille polemiche a Venezia, eclissato dalla - a giudicar dagli applausi - gradita presenza di Sandra Ceccarelli, paredra di Luigi Lo Cascio.

Dopo la sbornia glitter, segue la programmazione settimanale. Un po' di numeri, per dare le dimensioni dell'evento: 12 lungometraggi in 35 mm in concorso; 17 cortometraggi in 35 mm in concorso, 13 documentari in concorso, di cui 11 in video e due in 35 mm; 10 mediometraggi in video in concorso. Vi sono poi la panoramica lungometraggi con 4 titoli e la panoramica cortometraggi con 56 titoli, più 8 titoli nella panoramica documentari. Il Programma Speciale I, Maidels With Attitude, ha visto la proiezione di sei cortometraggi israeliani realizzati da donne omosessuali, il Programma Speciale II, South East Asian Delights, con 10 titoli, curiosamente in concorrenza con il Festival di Udine che contemporaneamente ha portato in Italia le realtà cinematografiche del Sol Levante, spesso sbrigativamente identificate in noiosi film lenti e pomposi o in Takeshi Kitano. Appunto. Non paghi, gli organizzatori del Festival hanno curato inoltre un omaggio a John Schlesinger, con i due capolavori Midnight Cowboy e Sunday Bloody Sunday, ed un omaggio a Derek Jarman, esplorato in profondità e con attenzione. Attuale più che mai il suo Sebastiane, storia di un martire cristiano torturato fino all'inverosimile, recitato in latino e girato in Italia. Il terzo omaggio è stato dedicato a Eloy De La Iglesia, raro caso di cineasta dichiaratamente omosessuale durante un regime fascista, nella fattispecie quello franchista: 7 titoli. Una retrospettiva sulle opere del geniale video-artista Brice Dellsperger: 20 titoli.

Ridotto, quest'anno, il consueto spazio dedicato alle icone lesbo o gay. È toccato a Katherine Hepburn, con 5 titoli tra cui Lo Zoo Di Vetro.
Ma non è tutto: centrali nella programmazione, anzi, vere trend-setter della forma della manifestazione, e sicuramente ricche di spunti interessanti e graditi al pubblico, la retrospettiva Teens In Love sulla filmografia europea sull'omosessualità nell'adolescenza (in questa rassegna spiccava l'allucinato, allucinogeno ed allucinante Du Er Ikke Alene, il film che l'ex di Macauley Culkin mette su quando si sente romantico), e la retrospettiva Mirages sull'omosessualità nella cinematografia di autori islamici, con 15 titoli espressione di paesi quali Egitto, Libano, Palestina, Algeria, Tunisia, Marocco e – naturalmente - Francia.

La selezione è stata indubbiamente intelligente, colta, sovente fortunata, e di certo lo staff s'è impegnato a fondo, con dedizione, impegno e rispetto verso il pubblico. Non si poteva chiedere di meglio o di più, calcolando lo scoraggiante silenzio stampa che determina il caso assolutamente ridicolo di un Festival più famoso all'estero che in Italia, e la relativa povertà di mezzi. Il Teatro Nuovo, attuale sede del Festival, non è adeguato, non lo è mai stato: i proiettori non sono adeguati; l'audio nelle sale piccole è pessimo, così la visibilità e la temperatura in pieno stile dark-room; il bar - in un Festival anche il bar conta - pratica prezzi forse più adatti al Lido di Venezia; i bagni sono peggiori di quelli della peggiore stazione, creando una sgradevole atmosfera battuage.

Minerba, Santoro, Oberto e tutti i loro collaboratori costruiscono un Festival competitivo e di qualità, e garantiscono un'intraprendenza rarissimamente esperita qui a Torino, e visto che Torino secondo la giunta comunale è la Capitale Del Cinema Italiano, forse potrebbero essere premiati con una sede diversa e più consona. È bene infatti tener presente la quantità di cineasti accorsi da ogni angolo del globo per assistere alle proiezioni delle proprie opere e delle opere di altri artisti; la presenza dei distributori, segno di un'attenzione reale verso la kermesse.

I vincitori: non si poneva di certo il problema di far vincere o meno un italiano, come succede nei Festival più provinciali, perché questo è un Festival realmente internazionale dove i campanilismi non contano. Così ha vinto Beautiful Boxer (Thailandia, 2003). Già selezionato per la prossima edizione di Berlino, grande successo in patria, coniuga due dei motivi per cui la Thailandia è famosa: la boxe e la cultura transgender. Il film biografico ha per protagonista Nong Toom, già campione nazionale di thai boxe, oggi soave, splendida attrice e modella. La regia è curata da Ekachai Uekrongtham, di vasta esperienza teatrale, artista sicuramente sensibile ma poco affine ai gusti delle platee italiane, come d'altro canto il 99% degli autori orientali.

Il premio del pubblico, significativamente, è andato ad una commedia: Goldfish Memory (Irlanda, 2003) di Liz Gill, presente in sala. Piuttosto leggera, in realtà è significativa del livello di benessere raggiunto a Dublino e dintorni. Ex aequo, il pubblico ha premiato Walk On Water (Israele, 2003) di Eytan Fox, sicuramente destinato a dibattiti interminabili non appena sugli schermi, e magari anche ad un Porta A Porta, che non guasta mai. Sicuramente ad un Infedele. Fox, già autore del celebrato Yossi & Jagger, l'anno scorso premiato al Festival ed in seguito successo nazionale (ma nessun cronista, critico o giornalista s'è ricordato della selezione torinese), in quest'occasione ha raccontato l'evoluzione di un agente del Mossud, un killer di stato, da cane sciolto e ruvido machista a uomo in pace con se stesso e sereno padre di famiglia, grazie all'amicizia con i nipoti di un ex criminale nazista. Il premio speciale del concorso maggiore è stato assegnato al gelido, dolente, agghiacciato Ein Leben Lang Kurze Hosen Tragen (Germania, 2002), che il regista Kai S. Pieck, presente in sala, ha dedicato a tutte le anime perdute. Biografia del serial killer bambino Jurgen Bartsch, vanta una fotografia davvero ottima a cura di Egon Werdin, e difficilmente passerà sotto silenzio. Destinato a diventare un cult-movie. Ex aequo, la giuria non ha potuto non premiare un vero e proprio capolavoro: Dancing (Francia, 2002), scritto, diretto, fotografato e interpretato (nei ruoli di loro stessi) da Patrick Mario Bernard, Pierre Trevidic e Xavier Brillat, quest'ultimo presente in sala. L'unico paragone possibile per un'opera tanto spiazzante è il Lynch di Lost Highway, senza i miliardi di dollaroni, ça va sans dire. Non verrà mai distribuito in Italia, ma è prevista la versione in DVD: attenzione ad Amazon France, dunque.

Un altro francese ha vinto - nell'entusiasmo della folla - il concorso cortometraggi: Un Beau Jour, Un Coiffeur... (Francia, 2004), del venticinquenne Gilles Bindi, commedia scritta, prodotta, diretta ed interpretata in modo ottimo ed irresistibile da una manciata di cugini d'oltralpe che hanno monopolizzato l'attenzione del pubblico festivaliero con la loro allure vincente. Ventenni felici, belli, sani, colti, lontanissimi dagli omosessuali borderline o - senza mezzi termini - tragici cui siamo stati a lungo abituati dal cinema italiano, rappresentano il futuro della cinematografia gay internazionale, che tende proprio a dribblare la morbosità degli epigoni di Pasolini e l'esibizionismo trasgressivo figliastro di La Cage Aux Folles, per concentrarsi sul genere della commedia e lasciar coabitare personaggi omosessuali ed eterosessuali in un orizzonte borghese, giovane ma non giovanilistico, in cui si lavora, e non necessariamente in posti di prestigio. C'è un edonismo di fondo, sotteso a questo trend così palese, così evidente dopo gli otto giorni del Festival, al di là dei film premiati Un edonismo che può piacere o non piacere, ma è la realtà.

Gay torna a significare felice, dunque. E fondamentalmente non c'è nulla di male, in questo.

 


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