La doppia anima di Cannes PDF 
Aldo Spiniello   

Festival di Cannes 2009: una strana edizione. Lo testimonia lo stesso palmarès, del resto. Era prevedibile che la presidente di giuria Isabelle Huppert puntasse tutto sulla vittoria del suo "prediletto" Michael Haneke, che, con Das weisse band, dà ancora una volta prova del suo sguardo gelido e irritante, di un cinema a tesi il cui interesse è sempre presupposto, prima o dopo le immagini. Ma altre scelte sono apparse senz’altro coraggiose e inaspettate. Fra tutte, il premio per la miglior regia a Brillante Mendoza, autore di un cinema mai formalmente impeccabile, ma sempre capace di entrare nella viva carne delle storie che racconta e nelle pieghe ferite della società filippina. Il suo Kinatay è un film a tratti sconvolgente, duro fino alla sgradevolezza, il pedinamento estenuante di un giovane apprendista poliziotto in una notte di violenza e orrore, lungo i quartieri malfamati e violenti della periferia Manila. Un crescendo di tensione, che sembra quasi guardare all’horror e che con rapidissime notazioni sa illuminare gli aspetti più contraddittori di un paese sempre sull’orlo del baratro (l’incredibile scena del boss che parla tranquillamente con il ragazzo del suo futuro lavoro da poliziotto).

Il rigore controllato e distaccato di Haneke e la regia sporca, irrequieta di Mendoza. Due estremi che testimoniano di una sorta di sindrome schizofrenica, di una doppia anima di quest’edizione del concorso. Schizofrenia che si evidenzia anche in una sorta di spaesamento geografico che è stata una delle cifre dominanti del Festival, che ha spesso fatto saltare i confini tra Oriente e Occidente. Basti pensare al viaggio nipponico di due registi europei come Gaspar Noè e Isabel Coixet e, dall’altro lato, lo sguardo francese di due grandi autori orientali come Johnnie To e Tsai Ming-liang. Noé, il controverso regista di Irréversible, con Enter the Void segue il suo protagonista in un fantastico e spesso ridicolo volo sopra i tetti di Tokyo, in una sorta di incursione/escursione psichedelica che, per quanto ci riguarda, contende ad Antichrist di Lars Von Trier la palma per il peggior film della selezione ufficiale. La Coixet, dal canto suo, si trasferisce in Estremo Oriente, per raccontare la delicate e tormentata storia di amore di uno spagnolo, proprietario di una enoteca e di una ragazza giapponese, che di giorno lavora al mercato ittico e di notte uccide a pagamento. Map of the Sounds of Tokyo appare come un film scisso, riuscito solo a metà. Dopo un inizio promettente, in cui lo sguardo della regista catalana sembra aderire a pieno a certe atmosfere e ritmi tipici del cinema giapponese, da yakuza movie, il film si perde all’inseguimento di una poeticità e di un estetismo forzati, a tratti eccessivamente compiaciuti.

Diverso il discorso per Johnnie To e Tsai Ming-liang. Il regista di Hong Kong, in Vengeance, si affida al solito gruppo di amici fedeli, lo sceneggiatore Wai Ka Fai e gli interpreti Anthony Wong, Simon Yam, Lam Suet, scegliendo come protagonista il cantante e attore francese Johnny Hallyday nei panni di Francis Costello. Il nome è già segno, icona. Un richiamo esplicito a Le Samouraï, il capolavoro assoluto di Jean-Pierre Melville. Johnnie To rende omaggio al grande maestro francese, al suo pessimismo eroico e alla sua invincibile malinconia, ma rimane al tempo stesso fedele al suo stile, alle traiettorie implacabili e geometriche e alle incontrollabili derive liriche del suo cinema. Si lancia in nuove scintillanti invenzioni e rifà le scene di una volta. To è come il suo protagonista, che si affanna nel disperato tentativo di ricomporre i frammenti di una memoria fragile. Ogni vuoto, ogni ricordo mancante è un sentimento perduto, un passo in più verso la morte. Perciò rifare sempre lo stesso cinema non è questione di maniera, ma di morale. È la sfida estrema contro l’oblio. Quella stessa sfida che sembra animare Tsai Ming-liang, che, su invito del Louvre, viene a girare il suo Visage a Parigi, tra le stanze, i corridoi, i giardini del museo. Proprio qui, nella finzione, l’eterno alter ego Hsiao Kang/Lee Kang-Sheng sta ambientando il suo film, una rievocazione della Salomè. E proprio tra queste stanze e questi giardini, negli antri segreti di questo cimitero del tempo, si aggirano i fantasmi truffautiani di Jean-Pierre Leaud, Fanny Ardant, Jeanne Moreau, Nathalie Baye. È come se Tsai Ming-liang ambientasse il suo Effetto notte privato in una personalissima camera verde, un luogo simulacro in cui esorcizzare la morte. E ci regala un film sublime e necessario sull’amore e la solitudine, la perdita e l’angoscia del tempo. Un film nel segno di Truffaut e della madre (morta durante le riprese), presenze/assenze che attraversano lo spazio, riempiendolo e donandogli calore ad ogni passaggio, per poi abbandonarlo ogni volta, un istante dopo. Un film in cui vita e finzione si inseguono all’infinito, sfiorandosi per brevi attimi di perfezione. E dove le immagini, nella loro dilatazione estenuante, sono l’atto estremo di un cinema che sogna di arginare lo scorrere del tempo, l’avanzata implacabile del provvisorio.

Ma tra sorprese e conferme, Cannes ha regalato anche altre folgorazioni. A cominciare da Un prophète, il film di Jacques Audiard vincitore del Gran Premio della Giuria, senza dubbio una delle cose migliori di questo festival. All’apparenza un solido film di genere, in realtà una lucidissima parabola di formazione, una discesa spietata e affascinante negli inferi del milieu, nei gangli oscuri di un abisso criminale che svela i meccanismi stessi del mondo. Un film di due ore e mezza, che, con la velocità di un treno, segue la storia del giovane maghrebino Malik El Djabnea, un pivello che si ritrova in carcere e si fa le ossa al servizio della temibile banda dei corsi e del boss César Luciani. Il duro apprendistato, la violenza, l’incubo e il sogno della libertà. Un percorso di crescita segnato dal sangue e dalla morte: l’agnello diventa lupo e alla fine si scopre profeta. La sceneggiatura di Abdel Raouf Dafri, dopo lo splendido exploit di Nemico pubblico n.1, è una conferma. Il ritorno al mondo dei truands, di José Giovanni, alle atmosfere magnifiche del grande polar non è il pretesto per rimpiangere il passato, il tempo dei titani, il romanticismo degli uomini veri, il senso dell’onore, il fascino struggente della sconfitta. Dafri si rivela come l’ultimo cantore della "mala", ma si rapporta al mito con il disincanto della contemporaneità. Da parte sua, Audiard riprende e reinventa il genere carcerario, guardando da un lato alla tradizione francese (Il buco di Jacques Becker), alla profondità dei personaggi, alla dimensione intima e umana delle storie, dall’altro ai ritmi e ai modelli narrativi americani. E, alla fine, fa esplodere le strette mura del carcere e del genere. Il suo sguardo è sempre puntato oltre, all’anima con i suoi deliri e alla vita là fuori, ai rapporti di potere che insanguinano le strade, agli affari, fino ad arrivare a confrontarsi con la morte, la malattia, il dolore, il rimorso.

A rappresentare la Francia c’era anche Alain Resnais, il grande vecchio, che ad ogni nuovo film appare sempre più libero dai fardelli intellettualistici del passato, sempre più incline al gioco. Con Les herbes folles il maestro torna ad alcune sue ossessioni: il gioco bizzarro e imprevedibile del caso, la dolce e amare irragionevolezza delle passioni e delle relazioni, la ricerca di una teatralità antinaturalistica degli spazi e della messa in scena. Ma l’eleganza assoluta dello stile viene fuori in tutta la sua limpidezza, come depurata da ogni inutile sovrastruttura che possa caricare e appesantire di senso lo scheletro di questo giocattolo fragile e leggero, che tocca, come nulla fosse, il cuore delle cose. La stessa densa leggerezza che rivive in The Time That Remains del palestinese Elia Suleiman, autobiografia dolente e ironica che ripercorre sessant’anni di storia del Medio Oriente e del conflitto arabo-israeliano. Suleiman trova il punto d’incontro tra il pubblico e il privato, mettendo in gioco il proprio passato e il proprio corpo, i ricordi e gli affetti. La sua è una maschera muta, complice e malinconica. Come Tati, come un fantasma. Osserva con una commozione crescente e, con il minimo mezzo, giocando con le ripetizioni, l’apparenza stralunata delle situazioni, a poco a poco arriva alla massima concentrazione emotiva. E senza mai muovere la macchina da presa, senza pronunciare una sola parola, ci rende partecipi di sentimenti e passioni intime e collettive.

Il dialogo tra la storia personale e quella collettiva torna nello straordinario Vincere di Bellocchio, racconto fedele e traditore dell’assurda vicenda di Ida Dalser, moglie segreta del Duce e madre dello sfortunato Benito Albino Mussolini. Bellocchio mescola in un collage futurista la ricostruzione d’epoca e le immagini di repertorio, gli inserti animati e le citazioni del cinema muto. Affida il ruolo impossibile di Mussolini a Filippo Timi, che dà prova di una presenza fisica impressionante, e trova in una sorprendente e intensa Giovanna Mezzogiorno la sua nuova Madre Musa. Al pari di Buongiorno, notte, questo Vincere è una riflessione potente, personale, definitiva su un periodo storico oscuro, troppo simile all’oggi. Ma soprattutto è un film che condensa tutto il cinema di Bellocchio e ne rimette in gioco le ossessioni. I confini labili tra normalità e follia, tra sogno e realtà, il conflitto lacerante con il Padre, con l’istituzione immobile, lo scontro tra la vitalità insopprimibile della passione e la freddezza marmorea e mortifera del potere. "Questo è il tempo di essere attori", dice lo psichiatra a Ida. L’assurda sicurezza del regime richiede l’acquiescenza. Ma il prezzo della felicità non è la normalità di un’appartenenza programmata. L’amore e la libertà scontano una magnifica condanna: rimettere in moto l’ordine sicuro del mondo. Ed è proprio questo movimento a ridare vita al cinema. Ad incendiarlo ogni volta. Come sogna Tarantino. 

 


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