Nel suo ultimo film, Un prophète, Audiard lo dice chiaro e fuor di metafora: le privazioni della prigionia sono una brutale ma efficacissima palestra di vita, primo motore delle azioni umane (specie di quelle peggiori). Il “profeta” Malik entra in carcere senza che allo spettatore sia dato sapere se le colpe di cui lo si accusa siano davvero tali: ai nostri occhi, colpevole lo diviene solo una volta entrato in cella, spinto da un istinto di sopravvivenza che lo accompagnerà lungo tutto il suo percorso di formazione alla rovescia.
In Sulle mie labbra, il film che nel 2002 rende noto il regista oltre i confini della madre patria, non si vedono nè sbarre nè secondini, ma le prigioni che tengono in cattività i personaggi si stagliano sullo sfondo, chiaramente visibili. È tragicamente reale quella che pesa sopra gli appena 25 anni di Paul, ex galeotto alla ricerca di un posto di lavoro e di una seconda possibilità: dal suo giovane passato riemergono fantasmi di brutte frequentazioni, tentacoli che tentano di riagguantarlo e trascinarlo indietro. È psicologica, ma non meno frustrante, la prigione in cui è costretta Carla, impiegata in uno studio di architettura, sfruttata dalle amiche più “sveglie”, derisa e tormentata dai colleghi prepotenti. La mancanza dell’udito, cui riesce a rimediare solo con l’uso di un apparecchio acustico, la obbliga spesso a rannicchiarsi in un angolo, dal quale non può che giocare il ruolo di “colei che vede” (che guarda gli altri, che assiste il bambino dell’amica, che spia qualcuno o che lo fissa da lontano …) quando invece desiderebbe essere lei ad essere vista, almeno per una volta. Non appena Paul viene assunto nello studio, infatti, Clara lo “usa” durante una festa per sfilare davanti alle amiche finalmente in compagnia di un uomo.
Nella cinica visione dell’autore ogni rapporto tra persone sembra trovare la sua ragione d'essere nello sfruttamento reciproco, secondo la spietata legge del do ut des che fra i miserabili vige in maniera piuttosto rigorosa. Regola che, in fondo, vale per la prigionìa di ogni tipo, per i tempi e le situazioni estreme, quando anche la più piccola risorsa va razionata e gelosamente custodita sotto il cuscino, quando la generosità e le offerte d’aiuto da parte degli altri non possono essere altro che ami lanciati all’ingenuità delle matricole, quando proprio nulla può essere fatto se nulla si ottiene prima in cambio. Più che la poesia dei sentimenti qui vale la dura economia della disperazione: un terreno arido che lascia ben poco spazio per far germogliare un amore autentico e disinteressato fra i due. Le immagini ce li mostrano a più riprese isolati, lei nella solitudine silenziosa della sua malattia, lui nell’assordante frastruono della discoteca in cui deve lavorare per estinguere il debito con i suoi aguzzini. La prima a tentare qualche timido passo fuori dalle logiche del baratto è Clara, il cui desiderio di riscatto nei confronti di colleghi e conoscenti si mescola sempre più ad un confuso interesse per il suo “complice” Paul. Ma abituata com’è a studiare il copione soltanto dalla parte della spettatrice, cerca di amare e riesce soltanto a farsi amare: si offre passivamente a Paul per aiutarlo a tirarsi fuori d’impaccio. A lui offrirà la sua risorsa più preziosa, quel saper “leggere le labbra” coltivato durante un’intera vita da prigioniera nel proprio silenzio. Per lui si presterà a lunghi appostamenti, scruterà silenziosa gli amici da dietro le”sbarre”, testimonierà reati e ne sarà complice, passando finalmente all’azione. Quella di Sulle mie labbra, quindi, è soprattutto la sua storia, un altro percorso di antiformazione, dalla cattività frustrante all’attività criminale nel segno di un amore crudele.
TITOLO ORIGINALE: Sur mes lèvres; REGIA: Jacques Audiard; SCENEGGIATURA: Jacques Audiard, Tonino Benacquista; FOTOGRAFIA: Mathieu Vadepied; MONTAGGIO: Juliette Welfling; MUSICA: Alexandre Desplat; PRODUZIONE: Francia; ANNO: 2001; DURATA: 115 min.
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