Tra i Charlie cinematografici degli ultimi mesi, districandosi, si potrà riconoscere un universo distaccato e letterario, in qualche modo unico. Il riconoscere è un’attività accurata, ricorsiva, sul viso di Michael Douglas: per l’esordiente regista Mike Cahill, l’attore bestseller si tramuta in un signor “X” atipico, interprete di un grigiore esteriore che incarna la natura brulla del paesaggio, brulicante di reami incandescenti appena qualche centimetro sotto la terra-polvere. Siamo nella California dal nome fiammeggiante e nobile spiegato nei brani di un vecchio diario di viaggio del 1624: li ricorda un’adolescente/adulta che vive in una casa “in mezzo al nulla”, sola, ordinatamente, aggirando la burocrazia indecisa che la crede affidata alla madre, a una famiglia adottiva o a suo padre, l’amico folle Charlie. Lui l’ha lasciata nella casa dal portico in legno due anni prima per curare il suo disturbo bipolare in un ospedale psichiatrico. Torna nervoso ed entusiasta: un organismo reso autonomo da vibrante fantasia, che si propaga violento tra la dimenticanza e la secchezza, devastando il corpo amoroso degli oggetti concessi al banco dei pegni (un contrabbasso memore del passato di musicista, una macchina, e il loro interscambio doloroso). La figlia gli oppone buon senso e continuità, con la sua vita rinchiusa e toccata dai sommovimenti del ricordo e del futuribile. È lei, Miranda, ad andare incontro all’avventura infantile che il padre le propone: la caccia al tesoro cementerebbe il loro sbilanciato rapporto, dandole la possibilità di conoscere suo padre e quel “baratro immaginario” in cui lei vorrebbe seguirlo, rivoluzionando la sua precoce armonia interiore. La produzione di Alexander Payne supporta il regista, alla sua prima opera, nella costruzione di un dialogo originario tra paesaggi brulli e immoti, dettagli calati tra l’umanità caratteristica, perversa o solo dolcemente bizzarra come per l’amico Pepper, altro corpo dimesso e mente fervida. Lo seguiamo con le orecchie radicate nell’andamento caloroso e giallognolo del folk-jazz d’accompagnamento e suonato dallo stesso protagonista in un’inusuale concezione del “viaggio”. Il sogno impossibile del ritrovamento di un tesoro spagnolo si muove attraverso strade dissestate e radure stilizzate tra le dune di un campo da golf. Nel suo svolgersi, agisce il gioco attoriale tra la luminosa sconsolatezza di Evan Rachel Wood e il corpo acciaccato, sussultorio di Douglas, occhi vivissimi. L’avventura si riempie di lungaggini e simmetrie da sogno, prima del quadro di colore tenue attraversato dalla diagonale di un’onda in movimento sui titoli di coda. L’emotività che prelude al vero “immergersi” di Charlie nel suo baratro senza fondo, scavato nell’artificiale, necessita di un ovvio ma non sgradevole intermezzo action, e accenni di dialoghi che si arrestano appena prima di invischiarsi nel “troppo dolce”. Permangono refusi dolciastri, non stucchevoli, di quell’identificazione e filiazione apparentemente impossibile della natura complessa e insieme vicinissima di personaggi tratteggiati lievemente, eppure con cura. Non resta estraneo l’ambiente, la caratterizzazione geografica, che con fare curioso e crudele sorregge la storia. TITOLO ORIGINALE: King of California; REGIA: Mike Cahill; SCENEGGIATURA: Mike Cahill; FOTOGRAFIA: Jim Whitaker; MONTAGGIO: Glenn Garland; MUSICA: David Robbins; PRODUZIONE: Usa; ANNO: 2007; DURATA: 93 min.
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