Don’t say a word PDF 
di Barbara Rossi   

Inizia bene, con l'afflato e lo stile di un'opera originale, il terzo film dell'americano Gary Fleder, che dopo l'esordio di "Cosa fare a Denver quando sei morto" (1995, uscito nelle sale americane solo due anni più tardi), strampalato noir alla Quentin Tarantino, e il discreto successo di "Il collezionista" (1997), sincopato thriller ad incastro abbastanza convincente anche se non privo di lacune, decide (malauguratamente) di rituffarsi in atmosfere psicodrammatiche e dentro i conflitti primari della mente e della coscienza.

Bisogna riconoscere un sia pur vago, pallido filo conduttore in tutte e quattro le opere (compresa l'ultima, "Impostor", 2002) del regista di Norfolk (Virginia), che ha iniziato la sua carriera con il successo di un documentario sul pugile Phil Paolina, premiato al Sundance Festival di Robert Redford nel 1993: ciascuna di esse è in definitiva la descrizione di un conflitto, il viaggio labirintico di un soggetto/protagonista/eroe (tutto questo, lo ricordiamo, in perfetta assonanza con i dettami per le strutture narrative del guru americano Chris Vogler) nel territorio sconosciuto di un dilemma più grande di lui.

Le domande poste sono fondamentali, archetipiche, modellizzanti una condizione estrema (addirittura nel primo film di Fleder la quaestio è anticipata sin dal titolo): e allora, che cosa fareste se foste un ex - gangster, proprietario di una società che realizza video messaggi per malati terminali, ripescato dal suo vecchio boss per portare a termine un lavoretto quantomeno fastidioso ("Cosa fare a Denver quando sei morto")?
Che cosa fareste se vi trovaste nei panni dell'ispettore di polizia Alex Cross (Morgan Freeman) e vostra nipote fosse stata rapita insieme ad altre sei ragazze da un maniaco omicida ("Il collezionista")? E se invece vi trovaste come lo scienziato governativo Spencer Olman (Gary Sinise) nell'anno 2079, nel bel mezzo di una guerra decennale tra gli alieni e la Terra, accusato di essere un cyborg ("Impostor")?

Si nota facilmente come in queste trame (due tratte da romanzi) lo schema in atto sia sempre il medesimo: da Denver a Durham, Carolina del nord, da New York ("Don't say a word": anche qui un titolo in funzione riassuntiva e anticipatrice del contenuto del film, come già in "Cosa fare a Denver…", ma con una sfumatura imperativa e intimidatoria in più) allo spazio (e al futuro), c'è sempre un uomo normale, con una vita normale, almeno in apparenza, di un buon livello sociale, la cui mente raziocinante viene messa alle strette da un episodio imprevisto (e imprevedibile).
Intendiamoci: Fleder non ha inventato nulla di originale, di trame così è satura Hollywood (e non solo), diciamo che la bravura di un regista, specie in tempi così poveri di idee, si misura anche dal grado di originalità con cui sa restituire una materia, una situazione; a maggior ragione se già sfruttate da altri.
Proprio questa originalità pare venir meno a Fedler nel suo terzo lavoro, che pure di primo acchito riesce a calamitare l'attenzione su se stesso chiamando in campo un attore di sicuro richiamo come Michael Douglas (Dr. Nathan Conrad) e un emergente come Sean Ben (Parick Koster).

"Don't say a word": il titolo ha già il potere di spiazzarci (e nel medesimo tempo ci attira); a chi si riferisce questa perentoria ingiunzione? Molto probabilmente a un personaggio del film, ma a causa di una subitanea immedesimazione, a noi spettatori: la pellicola insomma ci invita non solo a guardare ma anche ad entrare fisicamente nella storia, ad esserne complici. Ci prepariamo emozionati. Chi deve stare zitto? Che cosa non deve essere rivelata?
Come dicevamo all'inizio, il prologo narrativo, ambientato sempre a New York ma dieci anni prima rispetto allo svolgersi della vicenda principale, fondato su di un serratissimo e martellante meccanismo di time - lock, risulta - insieme ai ricordi in flashback della protagonista femminile Elizabeth Burrows (Brittany Murphy) - l'unica parte veramente riuscita del film.
La prima inquadratura è quella dell'orologio della metropolitana: poi si passa al quadrante dell'orologio da polso di un uomo sconosciuto; e poi c'è l'orologio di una banca, e ancora quello della metropolitana… Minuti contati, insomma, per la banda di rapinatori capeggiata da Parick Koster, subitamente unita e poi divisa dal possesso di un gioiello di incalcolabile valore; minuti contati, in questo esordio (ma lo spettatore ancora non lo sa) anche per il sogno di felicità e benessere di un padre e di una figlia; minuti contati, dieci anni dopo, per lo stimato e facoltoso psichiatra Nathan Conrad, per la sua famiglia da pubblicità; per Elizabeth Burrows, soprattutto, avvinghiata (ma non troppo) alle rovine di un segreto (e di un ricordo) difficile da rivelare; e per tutta una serie di figure minori che ruotano intorno a Nathan ed Elizabeth in un maledetto Giorno del Ringraziamento, dal dottor Louis Sachs (Oliver Platt) al detective Cassidy (Jennifer Esposito).

Alla fine, dopo 114 minuti di peripezie d'ogni sorta, arriva il lieto fine: che però ci lascia (purtroppo) con l'amaro in bocca. Perché lo spunto è originale, insolito, d'accordo (il film è tratto dal romanzo omonimo di Andrew Klavan), e intrigante il concetto di guardare ed essere guardati che mette in campo; c'è una buona tecnica di ripresa, un buon mestiere (efficace la cupa fotografia dell'iraniano Amir Mokri). Ma tutto è rovinato da una riduzione per il cinema molto probabilmente frettolosa, che trasforma i personaggi in macchiette stereotipate, o buoni o cattivi, senza vie di mezzo, che risolve un gravissimo caso psichiatrico di schizofrenia catatonica in non più di mezz'ora, accumulando una cifra spaventosa e comica di assurdità (per rendere l'idea: con quali straordinari poteri una persona costretta a letto con una gamba rotta riesce in pochi minuti a togliersi il gesso, alzarsi, trascinarsi nell'appartamento di sotto ed uccidere un pericoloso malvivente con un ferro da calza?). A colpi di banalità e - cosa ancor più grave - di un citazionismo ridicolo quanto di maniera (come non ricordare, affranti, "La finestra sul cortile" di Hitchcock?) si giunge sul finale ad un effetto quasi parodico, fumettistico, che la maschera inespressiva di Douglas non scalfisce minimamente. Peccato per quest'attore, che da tempo non riesce a regalarci un'interpretazione autentica, per Sean Ben (il Boromir de "Il signore degli anelli"), incapsulato in un ruolo monocorde, per una promettente Brittany Murphy ("Ragazze interrotte", "Gli uomini della mia vita"), che si sforza malgrado tutto di dare credibilità e spessore alla sua Elizabeth. In definitiva, occasione persa specialmente per il regista Gary Fleder, che ha avuto fra le mani un soggetto interessante e ne ha confezionato una trasposizione solo pallidamente riuscita.

 


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