Rodrigo Plą PDF 
Maurizio Ermisino   

ImageNon ha un’aria da regista impegnato Rodrigo Plà. Con quei capelli lunghi e ricci e il pizzetto, con la sua aria casual, sembra piuttosto un musicista heavy metal. Anche i suoi modi, affabili e cortesi, il suo sorriso contagioso, non sembrano quelli di un regista arrabbiato. Anzi, sembrano cozzare con i contenuti di un film duro e senza speranza come La zona, che racconta l’apparente idillio di una zona residenziale messicana, al di fuori della quale c’è la povertà. Una zona per privilegiati che si danno delle regole proprie. È una situazione che rispecchia il mondo di oggi, per nulla equo e solidale. Leggendo le sue parole, che pesano come macigni, non potrete rendervi conto dei suoi sorrisi e dei suoi modi garbati. Abbiamo incontrato Rodrigo Plà in una tranquilla mattinata a Roma, al Cinema Sacher a Trastevere, il tempio di Nanni Moretti, che ha scelto di distribuire il film. Dimostrandosi ancora una volta un intenditore.

Com’è nata l’idea del film?
L’idea è venuta a mia moglie, è un’inquietudine che nasce dalla constatazione della vita quotidiana: ci siamo resi conto che ci stiamo abituando a vivere in città dove ci sono sempre più zone residenziali protette da alti muri con il filo spinato e sbarre che vietano l’accesso. Stiamo riflettendo su dove ci sta portando questa società. La storia è ambientata a Città del Messico, ma vista la globalizzazione e la polarizzazione di questi problemi è qualcosa che può succedere anche da altre parti. Forse nei paesi latino americani è più evidente. Ma dappertutto si sentono problemi legati alla previdenza sociale, alle pensioni: quello della povertà è un problema che toccherà tante persone. La scelta del film è quella di non specificare né il contesto storico, né quello temporale, per dare la sensazione che possa svolgersi in qualunque città e in qualunque periodo storico. Anche perché il film  ha diversi livelli di lettura: il primo parla di questa persecuzione, il secondo è più ampio, parla di qualcosa che può accadere in vari paesi del mondo.

La “zona” esiste veramente a Città del Messico, ha girato veramente lì?
Questo quartiere esiste, così come tanti che sono stati concepiti in questa maniera, con muri e telecamere di sorveglianza a circuito chiuso. Il quartiere è fuori dalla città, e non così vicino alle favelas come si vede nel film. Alcune parti del film, come quella in cui si vede il campo da golf e dietro le favelas, sono assolutamente vere, ci sono luoghi come quello anche in centro. Esistono luoghi così, in cui si vive in un armonia basata su delle regole talmente rigide che hanno a che vedere con la pazzia. Che poi porta alla degenerazione, come vediamo nel film. Abbiamo scelto di girare in questa zona residenziale perché le case sono tutte uguali: l’armonia è garantita dal fatto che sono tutti omologati, non c’è libertà né particolarità.

ImagePoche persone che si danno delle proprie regole: è ciò che porta alle oligarchie e al totalitarismo. C’è questo rischio nelle società di oggi?
Non so dire con precisione se stiamo andando verso le dittature o i totalitarismi. Quello che volevo mostrare con questo film è un luogo fisico dove non c’è spazio per la differenza, e che anche in questo posto ci sono persone che non sono d’accordo con i più estremisti, ma visto che il pensiero dominante è quello dei più forti, devono accettarlo. Quello che sta succedendo negli Stati Uniti dopo l’11 settembre è proprio questo: tutti quelli che la pensano diversamente vengono accusati di tradimento verso la patria o gli ideali della nazione. In nome della sicurezza ci siamo imbarcati in questa lotta che è sì contro terroristi veri, ma anche contro un mondo astratto fatto di paure e di paranoie, che portano alla militarizzazione, e in futuro forse verso una forma di fascismo.

Nel mondo che racconta non sembra esserci posto per la solidarietà. Che senso ha questa parola oggi?
In questo film la solidarietà è rappresentata dall’adolescente, un ragazzo che pur essendo nato nella “zona” è più libero dai pregiudizi, e vede il rapinatore non come una bestia da braccare, ma come un essere umano. L’unica speranza di solidarietà è lui, che si chiede “perché sono nato da questa parte e non dall’altra, e come si fa a superare questo muro che ci separa?”. L’idea di seppellirlo viene a lui, perché non si possono gettare le persone nella spazzatura. È lui a dire che è una persona che ha vissuto, che aveva un nome, e che va ricordato. La solidarietà è rappresentata da Alejandro.

Nel film sembra che tutto sia in vendita, anche la giustizia. C’è ancora qualcosa che non si può comprare in questo mondo?
Non si può generalizzare, però ultimamente nel corso del tempo i valori si sono un po’ modificati: ad esempio il concetto di successo, di riuscita nella vita oggi ha a che vedere con l’accumulo di denaro. Non so se è tutto in vendita o se ci sono cose che non si possono comprare. A mio avviso il successo può voler dire educare bene un figlio, ma la società percepisce solo il denaro.

ImageTra le telecamere di sorveglianza e le storie ingigantite dai ragazzi si ripropone lo schema sensazionalistico dei media. C'è, in questo senso, una volontà critica?
La presenza inquietante e pressante delle telecamere è stato qualcosa di intenzionale, una scelta per mostrare una presenza che registra tutto e conserva tutto, ma poi ci sono queste persone che restano immobili davanti alle telecamere. In nome della sicurezza abbiamo perso la nostra privacy. Le chiacchiere dei ragazzi, che trasformano un rapinatore addirittura in uno stupratore, hanno a che fare con la tendenza di quell’età in cui si è propensi a mettere il sesso ovunque, perché questo è qualcosa che incuriosisce molto.

La barriera che c’è tra la “zona” e le favelas fa venire in mente un’altra barriera, quella tra Messico e Stati Uniti, un altro luogo di violazione dei diritti umani…
È quello a cui mi riferivo quando parlavo di varie chiavi di lettura. Questo è un muro che rimanda a tanti altri muri che ci sono in giro per il mondo. È caduto il muro di Berlino, ma tanti altri ne sono stati costruiti. La tendenza è quella della criminalizzazione degli immigrati, che vengono sempre considerati criminali, quando il 98% delle persone che abbandonano il proprio paese cerca semplicemente di migliorare la qualità della sua vita, sono semplicemente dei lavoratori che desiderano una vita migliore. All’inizio avevamo pensato di ambientare La zona proprio alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, ma sarebbe stato un film troppo manicheo, i cattivi sarebbero stati i ranger americani che sparavano sui messicani. Ma sarebbe stato tutto troppo bianco e nero, a noi piacciono le sfumature di grigio. Così abbiamo ambientato il film a Città del Messico, dove ci sono persone povere, che però sono anche dei ladri. Ciononostante, avrebbero diritto a un processo, e non alla giustizia fatta in casa dagli abitanti della “zona”.

ImageIn Messico funzionano i meccanismi di giustizia sociale o ci sono così tante differenze?
In Messico è tutto molto polarizzato. Alcune statistiche dicono che ci sono sessanta milioni di poveri, altre che ce ne sono quaranta, e al contempo c’è l’uomo più ricco del mondo. Il film vuole essere un grido di allarme, un avvertimento, un richiamare l’attenzione sull’assenza delle istituzioni. Se in un luogo come la “zona” la gente si fa giustizia da sé è perché nel nostro paese non ci sono le istituzioni e lo stato che dovrebbero aiutare i cittadini a risolvere i problemi. E questi ricorrono a una sorta di legge della giungla. E questo vale anche per la giustizia economica: in Messico c’è un detto che dice “se vuoi essere ricco vai negli Stati Uniti, se vuoi diventare milionario resta in Messico”. Lo stato non impone ai ricchi di pagare le tasse in maniera giusta, sembra che più sei ricco e meno paghi le tasse. Ma mi sembra che sia un problema diffuso un po’ ovunque: i più ricchi contribuiscono meno di tutti al benessere sociale, e diventano quasi delle entità virtuali.

Lei è originario dell’Uruguay. Andrà a girare in Sud America?
Stiamo lavorando già a un’altra storia, tratta da un racconto di mia moglie che è stato già pubblicato: si chiama La espera. Sono trent’anni che manco dal mio paese, e vorrei tornarci con i miei figli, per riannodare i legami tra di loro e i nonni.

 


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