The Village PDF 
di Francesco Ippolito   

Molti film hanno già parlato della paura, illustrandola in quasi tutti i suoi aspetti e indagandone gli effetti, dai più reconditi ai più superficiali. Poche pellicole però sono riuscite a fare un discorso articolato sulle radici inconsce di questo sentimento così arcaico, quelle radici che affondano nell'inconsapevolezza, nel non sapere con certezza l'esatta entità di una sensazione sempre presente, seppur non ben definita.

The village propone una chiave di lettura inedita che prevede, come postulato fondamentale, l'ignoranza di una verità non desiderata ma alla quale, per ragioni di carattere naturale (forse puramente "istintuale"), ciascuno di noi tende. E allora ecco che tutti i codici linguistici dell'apprendimento sfociano in una sorta di consapevolezza non voluta che tende a rifiutare il reale così come lo si percepisce e che sfrutta la naturale tendenza all'autoconservazione per creare un'impalcatura delicata e instabile che sorregga un ordinamento sociale arcaico, ma non per questo meno giusto o necessario (almeno nella percezione dei suoi artefici). Se è vero che ciascuno di noi è il prodotto del contesto sociale in cui è cresciuto, delle abitudini e delle informazioni che negli anni ha ricevuto, allora il risultato di un'aberrazione comportamentale come l'isolazionismo non può che essere un sentimento che va oltre l'odio, estraneo anche alla paura, una percezione del reale contaminata dal pregiudizio della diffidenza verso qualsiasi cosa sia lontana dai codici interpretativi che ci sono stati forniti.

Tali premesse conducono ad una metafora socio-politica assai precisa: l'inevitabilità della perdita di un contatto diretto e razionale con la realtà che, a lungo andare, rischia di trasformarsi in un'attenzione maniacale rivolta esclusivamente all'esterno (bosco/mostri, che incarnano, senza una ragione apparente, il male), tralasciando di analizzare le ragioni di un'interiorità apparentemente pacifica e democratica (villaggio/Stati Uniti d'America) che, in realtà, finisce per assomigliare sempre più a quei mostri che da tempo tenta di esorcizzare. Non a caso i due elementi della medesima dicotomia appartengono, nel film, allo stesso soggetto. Il "male" - rappresentato dai mostri - è insito nella stessa comunità e da essa proviene essendo una sua invenzione mirata ad assicurare una forzata e illiberale unità sociale, una coesione ottenuta con i mezzi del terrore, un'invenzione che viene però relegata entro i confini del bosco, nel vano tentativo di rendere immacolata l'impossibile utopia che i protagonisti del film perseguono.

La necessità che sottende l'individuazione di precise regole comportamentali porta inevitabilmente alla menzogna, una falsità che fa dell'ignoranza (dovuta alla totale mancanza di stimoli esterni) la sua principale ragione d'essere, partendo da una disillusione nell'osservazione delle potenzialità, quanto mai distruttive, dell'essere umano. Un discorso di questo genere non può che condurre ad un isolazionismo volontario, una chiusura verso un'interiorità travolta dalla frenesia derivante dalla socializzazione intesa in senso moderno che, a rigor di logica, nulla vieta ma che, in termini pratici, è la causa fondamentale di un voler dimenticare quanto di abnorme si è involontariamente appreso.

Alla luce di queste considerazioni il bosco appare come il recinto (fitto di alberi/sbarre) che imprigiona gli abitanti ignari ma che, esternamente, ha un aspetto naturale che lo legittima e gli conferisce una sorta di giustificazione morale.

Ciò che è naturale, difficilmente viene percepito come irrazionale o sbagliato.

 


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