La versione di Barney PDF 
Michele Segala   

“Ma è meglio il film o il libro?” è una domanda che saltiamo volutamente a piè pari, perché dovrebbe essere ormai assodato che cinema e letteratura sono due media diversi con due diversi universi sintattici. E allora montiamo subito in sella al film di Richard J. Lewis, tratto dall’omonimo e quanto mai osannato romanzo di Mordecai Richler.

Barney è un impenitente ubriacone dalle maniere rudi e approssimative che, per tutta la vita, ha saputo comunque cavarsela grazie ad un talento e ad un successo discreti (è produttore di una soap opera canadese di infimo livello). Ormai anziano, guarda indietro a ciò che è stato di sé: la sua giovinezza, i suoi tre matrimoni, l’amico morto nella sua casa di campagna in circostanze poco chiare (e per le quali è stato anche sospettato di omicidio). In un vortice di colpi di testa dettati talvolta dai fumi dell’alcool e talvolta da una cieca stupidità cerca di arrivare ad una summa delle sue esperienze, nel tentativo di salvare il salvabile. Salvabile che, alla fine, non può che essere l’unico e grande amore della sua vita, la terza moglie Miriam.

Sgombriamo subito il campo da un altro paio di banalità, piuttosto evidenti già dopo pochi minuti di visione: Lewis non è molto più di un discreto mestierante (sua è la regia di una moltitudine di CSI, la creatura per immagini cui ha dedicato più tempo), e non si ha mai l’impressione di andare oltre la qualità di una regia televisiva. Non mancano, poi, imprecisioni o stonature: perché, ad esempio, la musica (extradiegetica perlopiù) all’inizio richiama direttamente il periodo storico narrato (i T.Rex per il primo flashback sugli anni Settanta) e poi, con il procedere della storia, la connessione va persa? E ancora sul lato musicale: perché Barney trent’anni dopo richiede alla radio delle canzoni d’amore di Leonard Cohen? C’è un motivo preciso (e se sì non sarebbe il caso di accennarlo al pubblico?), o semplicemente gli ebrei canadesi un po’ nostalgici ascoltano per forza il vecchio Leonard (in quanto, anche lui, ebreo canadese …)? Altra banalità, più evidente con il trascorrere dei minuti, è che questa “versione” preferisce sottolineare il lato romantico della vita di Barney. Quindi: umorismo yiddish/ebraico out e amore coniugale in. Quel che significa, nell’economia della visione, è che non si ride quanto si potrebbe, ma piuttosto ci si commuove. Niente di male in questo, perché l’amore tra Barney e Miriam merita un climax sentimentale, ma che per raggiungerlo si debba per forza rassicurare lo spettatore che il protagonista – per quanto sfrontato – è pur sempre una brava persona, e che, alla fine dei suoi giorni, anche il figlio che l’ha odiato per aver tradito la madre, lo perdona … Insomma, tutto questo sembra pensato a tavolino per spingere alla lacrima facile, sacrificando troppo lo spessore dei personaggi (il figlio “cattivo” invisibile, la figlia “buona” che spesso è vicina a lui ma non si comprende bene perché), e facendo così gravare tutto il peso della sceneggiatura sulle spalle di Paul Giamatti.

Un Giamatti che, per quanti premi e apprezzamenti riceva, qui, di fronte ad un tale compito, non sembra perfettamente a suo agio: non bastano infatti la sua energia e la sua faccia da sfigato cronico a portare a casa il personaggio. Ed è difficile pensare che non si riescano a trovare attori, magari più vicini alla cultura e alla comicità ebraiche, che avrebbero saputo essere più dirompenti, laddove Giamatti è soltanto “casinaro”: il Richard Schiff visto in The Infidel al TFF (e nella pluripremiata serie West Wing) non sarebbe stato abbastanza di richiamo? Probabilmente no. È comunque un peccato, tanto più che, per come è strutturata la sceneggiatura (a cascate di flashback, e che quindi presume una recitazione esplosiva, tutta a scatti), questo La versione di Barney sembra essere molto più un film di attori che un film di regia. Per intenderci: se fossimo negli anni Settanta e le parti fossero invertite (lei svitata, bruttina ed ebrea, lui gentile e bello) sarebbe stato pane per i denti della benemerita coppia Redford & Streisand. Tanto più se il film vira tutto in direzione della storia d’amore. E Giamatti, per quanto simpatico, non vale un Redford (o una Streisand).

Ma alla fine che cosa rimane di questo Barney? Cosa ne è dell’irriverente, sboccato e politically incorrect personaggio promessoci (se non dalla lettura del libro almeno dalla sua fama)? Non molto forse, dato che Lewis e lo sceneggiatore fanno di tutto per affossare il suo dinamismo, la sua esuberanza vitale, in un crescendo sentimentale che se da un lato – assieme al mistero della morte dell’amico Boogie – aiuta a mantenere abbastanza alta la tensione fino al termine della (non breve) pellicola, dall’altro non fa che aumentare nello spettatore la convinzione che la storia di Barney si faccia sempre più simile ad un feuilleton. A non aiutare poi c’è anche il fatto che le parti che dovrebbero essere tra le più “debosciate” e bohemienne del racconto del protagonista siano state in parte cassate o ridimensionate (apparentemente) per una esigenza della produzione: infatti, essendo il film co-prodotto dall’italiana Fandango, questo pare aver fatto sì che la Parigi anni Cinquanta di Barney sia stata sostituita da una Roma anni Settanta che fa molto cartolina (e dalla ricostruzione chiassosa e visivamente inconsistente) e che di fascino bohemienne non ha proprio nulla. Soppressione questa che non fa che spostare il baricentro del racconto verso una narrazione ben più “borghese” e calmierata nei toni.

Una menzione di merito va però riservata (almeno) a Dustin Hoffman per la sua performance dell’insolito papà ebreo rozzo ed ex poliziotto: non rimarrà forse negli annali, né tra i suoi personaggi migliori (per quelli ha già dato da molto tempo ormai), ma di certo riesce a strappare più di una risata e, nel poco spazio che gli viene riservato, a delineare un carattere ben preciso: demodé e tenero, rozzo ma di buon cuore. Allo stesso modo è piaciuto poter rivedere il Mark Addy di Full Monty, specialmente in una parte diametralmente opposta a quella del simpatico ciccione del film campione d’incassi britannico: il suo spregevole detective O’ Hearne (unica vera nemesi di Barney) è immediatamente ripugnante ed imponente. Anche questa, purtroppo, è un’occasione persa del film: insistere sul dubbio della colpa per la morte di Boogie in modo da riuscire anche a creare un personaggio in grado di interagire in modo conflittuale col protagonista si sarebbe rivelata una scelta vincente. Soprattutto perché è proprio il carattere conflittuale di Barney che, seppure sottolineato dalla morte dell’amico avvenuta proprio in seguito ad una lite tra i due, non trova mai abbastanza spazio. Ed è un peccato non solo perché ne avrebbe giovato la sceneggiatura in varietas e credibilità, ma anche perché avrebbe dato qualche chance in più a Giamatti di costruire una parte migliore.

Insomma alla fine quello che rimane, pur non trattandosi di un grande film, è un’opera che sa comunque costruire e gestire un suo ritmo interno: nei suoi 130 minuti abbondanti, infatti, l’attenzione raramente cala, e questo perché si tratta pur sempre della storia di un personaggio dall’indubbio fascino, che spesso sa mettersi in situazioni tanto divertenti quanto potenzialmente drammatiche. L’impressione di un’occasione mezza sprecata però rimane (se solo si fosse rischiato un po’ di più, se non si fosse pensato a tutti i costi ad un pubblico “da famiglie” con la paura di scandalizzarlo, e finendo così per consolarlo …), ma perlomeno in bocca non rimane il sapore amaro della fregatura.

TITOLO ORIGINALE: Barney's Version; REGIA: Richard J. Lewis; SCENEGGIATURA: Michael Konyves; FOTOGRAFIA: Guy Dufaux; MONTAGGIO: Susan Shipton; MUSICA: Pasquale Catalano; PRODUZIONE: Italia/Canada; ANNO: 2010; DURATA: 132 min.

 


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