Non (del tutto) un film corale, né una docufiction sulla danza, non abbastanza narrativo per essere un dramma, né abbastanza sperimentale per essere un film puramente visivo. The company di Altman è un'opera enigmatica, con alcuni momenti alti di cinema di poesia, e che nel complesso, volutamente, non decolla. Il film si apre con una sequenza (forse la più bella e la più inquieta del film) interamente concentrata sul movimento e sulla musica: si tratta di un ballo su musica elettronica, corpi in movimento, che si intrecciano su un palco, senza storia. A noi è dato vedere semplicemente i loro movimenti, sentire i loro passi ovattati, ammirare le loro coreografie, mentre scorrono i titoli di testa.
Basterebbe forse questa sequenza per parlare dell'abilità di Altman e della sua capacità di mostrare il ballo e il movimento, la capacità di coglierne l'essenza e lasciare senza fiato lo spettatore. Ma Altman non si affida alla sola rappresentazione delle diverse coreografie (quelle del Joffrey Ballet di Chicago) e per raccontare la vita del gruppo mostra anche i rapporti interni fra direttore (un bravo Malcolm McDowell), comparse e prime donne, legami e contrasti all'interno della compagnia, in sostanza: gioie e dolori. Ma ancora: Altman si sposta e concentra la sua attenzione sulla storia d'amore della prima ballerina con un giovane chef e mette sullo sfondo momenti più o meno ironici del lavoro quotidiano dei ballerini. Uno su tutti, la sequenza della festa, narrativamente la più interessante del film: i ragazzi rivisitano ironicamente le coreografie e alcuni momenti della loro vita nel corpo di ballo, momenti vissuti nel corso del film anche dagli spettatori, creando così un ambiente intimo, uno spazio condiviso, a cui "miracolosamente" (grazie alla comunanza di saperi) può accedere anche il pubblico.
Ma aldilà di questo unico momento, The company è un film freddo e distaccato, quasi superficiale, tanto da essere, si è detto, una denuncia della superficialità stessa (dell'arte, in primis). Sono le immagini e i suoni i veri protagonisti, come durante il secondo balletto del film, in cui Altman porta ai vertici la possibilità di raccontare l'evento artistico attraverso il cinema, la costruzione e l'artificio: la magia del teatro (la rappresentazione) è arricchita dalla magia della natura "artificiale" (il vento, la pioggia e i fulmini), in un crescendo di tensione (forse lo spettacolo verrà sospeso, forse la pioggia farà scivolare la coppia di ballerini) propria e unica del cinema.
In definitiva, quello di Altman, è un inno al cinema, un inno appena sussurrato, che ancora una volta ci rende schiavi della settima arte.
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