La passeggera: l’Olocausto come crisi della memoria e scontro psicologico PDF 
Piervittorio Vitori   

In occasione di uno scalo effettuato dalla nave di crociera su cui sta viaggiando insieme al marito, Liza crede di riconoscere in una passeggera che sta salendo a bordo Marta, una ragazza polacca che aveva conosciuto come prigioniera ad Auschwitz. Lo shock è talmente forte da spingere la donna a svelare al marito il proprio passato: durante la guerra era stata impiegata nel lager come sorvegliante, compito che aveva assolto cercando comunque, nei limiti del possibile, di alleviare le pene dei detenuti e riuscendo, addirittura, a salvare la vita a Marta. Ma la ricostruzione dei fatti proposta dalla protagonista è – lo scopriamo poco dopo – menzognera. Una seconda versione dell’accaduto, che prende vita nel momento in cui la donna si scopre incapace di continuare a mentire a se stessa, ci propone una diversa immagine di Liza: quella di una donna arida, pressoché insensibile all’orrore che le sta intorno e meschinamente invidiosa del rapporto tra Marta e il suo compagno (anch’egli internato), al punto di voler dominare la ragazza usando come moneta di scambio la possibilità di farle vedere l’uomo. Liza alla fine non riuscirà a piegare Marta, ma poco male: la passeggera misteriosa lascerà la nave senza avvicinare la protagonista, permettendole così di ritornare al confortevole oblio iniziale.

Questa è la storia nel film La passeggera (Pasażerka), il capolavoro di Andrzej Munk che la morte dello stesso regista polacco, avvenuta nel settembre del 1961 (un mese prima del suo 40esimo compleanno), lasciò fatalmente incompiuto. Ma per capire la grandezza e le possibilità dell’opera – che Godard definì come l’unico vero film sui campi di concentramento – è importante soffermarsi brevemente anche sulla storia del film, intesa come sviluppo del progetto. La fonte di partenza è il radiodramma di Zofia Posmysz-Piasecka Pasażerka z kabiny 45 (La passeggera della cabina 45), datato 1959. Il suo successo portò alla realizzazione di un adattamento televisivo, per la regia di Munk, trasmesso dalla tv polacca il 10 ottobre 1960; il programma non fu registrato, e se il fatto che sopravviva dunque solo nella memoria di quanti lo videro quella sera da un lato ci impedisce di stabilire la natura del suo legame con la successiva trasposizione cinematografica, dall’altro rappresenta un primo esempio del curioso parallelismo tra la storia dell’operazione e i temi che si trovano al centro del prodotto finale. Successivamente, nel 1961, Munk e Posmysz-Piasecka iniziarono a stendere la sceneggiatura della versione cinematografica, le cui riprese iniziarono lo stesso anno per venire interrotte dall’incidente motociclistico che costò la vita al cineasta. I suoi collaboratori decisero tuttavia di proseguirne il lavoro, con uno sforzo teso a dare una forma compiuta all’opera senza, al contempo, tradire o travalicare le intenzioni dell’autore. Lo script e le discussioni intavolate con Munk furono la base per realizzare un surplus di scene ambientate ad Auschwitz, mentre le sequenza sulla nave – del cui girato Munk si era detto insoddisfatto – furono rese attraverso la giustapposizione di still frames e foto di scena, corredate da un commento in voice over. Questa fu quindi la forma, di cui si assunse la responsabilità Witold Lesiewicz, in cui La passeggera fu portato a compimento nel 1963, per poi essere presentato e premiato l’anno successivo tanto a Cannes quanto a Venezia.

Portando ora l’attenzione sul corpo dell’opera, non si può che ri-sottolineare come la sua incompiutezza trovi un significativo riflesso nella frammentarietà delle sequenze ambientate nel presente diegetico. Il narratore ci propone tanto la nave quanto i suoi passeggeri come isole, elementi slegati l’uno dagli altri, suggerendo una linea di riflessione che potrebbe essere applicata anche alla sequenza di immagini fisse che compongono questa porzione del film. I viaggiatori non si conoscono tra loro, in quel non-luogo che si muove sull’acqua possono nascondersi e reinventarsi agli occhi degli altri. Emerge così l’idea che di ognuno si possa conoscere solo ciò che costui (o costei) decide di far conoscere; eliminate le dimensioni di passato e futuro – il commento lo dice esplicitamente – ciò che resta al di fuori dell’hic et nunc è semmai un altrove con il quale i rapporti spazio-temporali e causali sono assolutamente opinabili. Questo ragionamento è applicabile anche al momento del passaggio alle sequenze del campo: non sappiamo quale movimento emotivo-psicologico porta Liza a rielaborare la prima versione del passato, fornendoci successivamente quella veritiera. Di più, la forma in cui il film è giunto a noi non escluderebbe del tutto un’altra ipotesi: e se, in un’epoca in cui la psicanalisi iniziava ad andare al cinema (e questa è comunque una linea d’analisi che ne La passeggera trova terreno fertile), le sequenze “frammentate” sulla nave non fossero che il sogno, sognato da Liza nel lager, di un possibile futuro? Questa interpretazione, chiarisco, non trova riscontri né nelle intenzioni di Munk né nei testi che ho avuto modo di consultare a proposito del film, ma rimane senz’altro affascinante e ci parla delle molteplici possibilità di un film rimasto aperto agli apporti dello spettatore, così come ogni passeggero, stante la sua incerta identità, può essere variamente “letto” dagli altri.

L’aver citato la psicanalisi fornisce ora il destro per mettere l’accento su alcune peculiarità della pellicola, elementi che ne fecero risaltare all’epoca un’originalità che tuttora colpisce. La passeggera è la prima opera, tra quelle che affrontano l’Olocausto, a declinare la materia trattata non nei termini di una fattualità presente, ma di una memoria che, in quanto tale, si rivolge al passato. E se, poco dopo, un’operazione simile verrà compiuta da Lumet con L’uomo del banco dei pegni, il tratto di ulteriore originalità che segna il film di Munk è il fatto che il punto di vista non è quello della vittima ma quello del carnefice, con l’ambiguità e la problematicità che ne conseguono. Due caratteri che emergono palesemente, come apparirà logico, nella prima versione dei fatti fornitaci da Liza, quella, appunto, “falsa”. La misura della falsità è data dalla discrepanza tra ciò che vediamo e ciò che la donna ci racconta (tenendo presente che in entrambe le sequenze ambientate nel passato la narrazione over di Liza è predominante rispetto al dialogo). In particolare, è indicativo il primo incontro con Marta, allineata con altre prigioniere in un gruppo tra il quale la protagonista dovrà scegliere la sua aiutante. “In Marta colsi qualcosa di vulnerabile e infantile”, spiega l’ex SS al marito, spacciando così per afflato protettivo quella tensione che – naturalmente lo scopriremo meglio poi – è in realtà volontà di dominio. Ma già l’immagine della ragazza ci suggerisce la verità: la fronte alta, la compostezza del volto, il rifiuto di ricambiare o cercare lo sguardo di Liza ci fanno capire come Marta non sia una creatura docile. Ha la volontà per resistere; ha l’affetto di Tadeusz; ha, insomma, gli strumenti per immaginare una possibilità di vivere l’orrore dell’internamento diversa da quella cui si suppone dovrebbe rassegnarsi.

Una possibilità che a Liza appare invece preclusa: lei, che pure è libera, non riesce a vedere al di là del perimetro del lager, come se ciò che c’è al di fuori fosse un altrove irraggiungibile ed indefinito quanto quello che, nel presente, non si trova riassunto nella figura della nave (più tardi Liza accennerà alla possibilità di tornare nel Reich, entità che però non assumerà mai una fisionomia più precisa). E difatti l’ambizione e l’ossessione della protagonista nei confronti di Marta ha come punto di partenza e pietra di paragone dichiarata non la vita all’esterno del campo, ma il rapporto tra la prigioniera e Tadeusz. Attraverso il confronto con la ragazza, Liza percepisce questa minorazione della sua umanità. In una delle inquadrature più importanti della sequenza, vediamo per la prima volta la donna nei panni della sorvegliante: la protagonista non è però chiamata in causa direttamente dalla mdp, bensì proposta attraverso lo strategemma del riflesso in uno specchio, a rimarcare la non-oggettività del punto di vista (nella stessa sequenza vedremo Liza solo un’altra volta, in questo caso con il suo volto riflesso dal vetro di una finestra). Su questa immagine di lei, berretto delle SS in testa, sentiamo la sua voce dire: “C’era la guerra, e ognuno di noi si sentiva un soldato”. L’intento autoassolutorio della frase implica chiaramente l’idea che in una condizione del genere l’umanità necessaria a stabilire un rapporto basato sulla solidarietà possa venir meno. Specularmente, verso la fine della seconda versione dei fatti, vedremo Liza togliersi per la prima volta il berretto e liberare i capelli: questa sorta di rivendicazione dello status umano avviene quando la donna si sente in tasca quella promozione che le permetterebbe di lasciare il lager e di recarsi davvero insieme a Marta verso un altrove dove poter rinegoziare il loro rapporto su basi differenti. Ma, di fronte a questa soluzione, l’ultimo gesto di non disponibilità di Marta cambierà le carte in tavola.

Apparirà ora chiaro come, tra le diverse atout dell’opera, ci sia anche la scelta di proporre la tragica realtà del lager principalmente nei termini di uno scontro psicologico tra i due personaggi femminili, relegando le figure ed i segni più espliciti dell’orrore sullo sfondo, anche in senso visivo. Al di là di singole scene che risultano comunque funzionali allo sviluppo del rapporto tra Liza e Marta (come quella della corsa notturna delle prigioniere tra file di kapò pronte a prenderle all’uncino), la sobrietà per cui opta Munk è tale da sfiorare persino il cinismo involontario, come nell’immagine del sorvegliante che con fare quasi svogliato ributta nel carro pieno di morti il braccio di un cadavere che ne penzolava fuori. C’è forse un’unica inquadratura tacciabile di essere un potenziale colpo basso: è quella, in sede di presentazione dell’ambiente-lager, in cui una carrellata orizzontale su un complesso di edifici termina con una brusca panoramica verso l’alto che mette improvvisamente in campo degli alti camini che eruttano fumo nero. Un’inquadratura che, però, consente almeno di accennare alle scelte di Munk per ciò che attiene alla composizione e alla gestione delle inquadrature. Se infatti la sobrietà è il registro dominante, la regia si distingue anche per una grande fluidità di sguardo, che si concretizza soprattutto nei movimenti di macchina orizzontali ed obliqui. Attraverso panoramiche e carrellate, la mdp disegna con precisione lo spazio e le relazioni tra gli elementi, umani e non, che lo occupano. Oltre al caso evidenziato poche righe fa, questa orizzontalità trova solo altre due, significative, eccezioni. La prima è data dall’inquadratura che apre la seconda sequenza declinata al passato – quella della rievocazione “oggettiva” dei fatti – e che da sola segna lo stacco tra le due narrazioni. È appunto la riproposizione di una scena già vista in precedenza attraverso il filtro autoassolutorio con cui Liza cercava di giustificarsi agli occhi del marito: quella in cui Marta e Tadesuz vengono sorpresi insieme dalla protagonista. Nella versione numero due, la donna è subito in campo (ed è la prima volta che la vediamo come oggetto di sguardo privo di mediazione), e il suo ingresso nella baracca, con la camminata frontale verso la mdp, viene ripresa con una panoramica dall’alto in basso. La seconda eccezione, sempre all’interno della narrazione veritiera, cita invece l’apertura della prima sequenza: rispuntano infatti i camini di cui sopra e stavolta da lì, con una carrellata a scendere, ha inizio la scena in cui Liza assiste turbata all’ingresso di un gruppo di prigionieri nella camera a gas, rivelando così a Marta e allo spettatore la propria debolezza.

Proprio la debolezza di chi il potere lo detiene, contrapposta alla forza di chi quel potere è destinato a subirlo, è in definitiva il motore di quella dinamica ad elastico (nutrita di attrazione, disprezzo, lusinghe, minacce e ricatti) che definisce il rapporto tra i due personaggi femminili e rappresenta il cuore del film. Un film che dunque, rifiutando la spettacolarità dell’orrore e preferendole la sottigliezza dello scavo psicologico, riesce ad andare anche al di là della definizione godardiana. Non solo il miglior film di finzione sui campi di concentramento ma, grazie ad una coppia di figure credibili ed universali al tempo stesso, un’opera che riesce a farsi grande metafora del rapporto tra oppressore ed oppresso in qualsiasi sistema totalitario.

TITOLO ORIGINALE: Pasazerka; REGIA: Andrzej Munk; SCENEGGIATURA: Andrzej Munk, Zofia Posmysz Piasecka; FOTOGRAFIA: Krzysztof Winiewicz; MONTAGGIO: Zofia Dwornik, Witold Lesiewicz; MUSICA: Tadeusz Baird; PRODUZIONE: Polonia; ANNO: 1963; DURATA: 62 min.

 


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