Cléo dalle 5 alle 7 PDF 
Gianpiero Ariola   

Agnès Varda con Cléo de 5 à 7, suo secondo lungometraggio, già sperimenta la sua propensione documentaristica, in un’opera che però assume tutte le trasgressioni linguistiche della nuovelle vague e incarna uno dei gesti simbolo del movimento: una libera camminata per le strade parigine. Il tempo del film tende al tempo reale, scandito com’è da capitoli e cartelli che avvertono della sua normale scorrevolezza cronologica. Ciò spinge la fruizione della pellicola a coincidere con le palpitazioni della protagonista per il fatidico responso medico: si ottiene così la compressione della diegesi nell’arco di un’attesa vera e propria che, in quanto ansiosa, è votata naturalmente all’espansione. Inoltre, espungere le ellissi, e persino marcare le scene con intrusioni di “gramma” e ricorrenti orologi - che corroborano la genuinità del sincronismo -, non è sufficiente per trasformare la percezione filmica in dimensione realistica. Così, l’apparente pedinamento da cinéma veritée è invero contaminato con un sapiente artificio (1) e mascherato da spontaneo flusso d’eventi e movimenti. La forzatura della durata, forse, non fa altro che esprimersi sulla sostanziale alterazione che la messa in scena cinematografica opera sul dispiegamento della narrazione, con conseguente modellamento riflessivo degli spazi fisici e psicologici (2).

Dunque, in una serie di diversificazioni e intensificazioni delle inquadrature, la palingenesi della protagonista non risulta costretta in un lasso cronologico sì limitato e di così ridotte dimensioni, come potrebbe apparire a un primo sguardo. Piuttosto, pare costellata da un turbinoso accumulo di elementi, che provocano consistenti trasformazioni interiori, tali da costringere la partecipazione spettatoriale in direzione di una percezione complessiva del tempo notevolmente più ampia e stratificata di quella riservata all’azione in sé. I mutamenti della giovane e disorientata protagonista si gonfiano di nuove consapevolezze che ne espandono il vissuto, con una semiosi che oscilla dal piano diegetico a quello senso-motorio (i momenti di staticità si avvicendano senza sosta a lunghi e prolungati movimenti), fino a coinvolgere l’immagine riflessiva (l’uso delle immagini speculari moltiplicate, implicanti uno stato di frammentazione dell’io). Onde ottenere con maggiore efficacia tale risultato, la cineasta diversifica progressivamente le forme stilistiche, ottenendo interessanti variazioni, che tuttavia non risultano estetizzanti ma conservano una peculiare funzione narrativa. Se, infatti, pervade la prima parte con fratture di montaggio (jumps cut) e piani-sequenza che preparano lo spiazzamento della protagonista e ne descrivono lo shock improvviso, preconizzandone il mutamento, nella seconda parte, invece, quando il cambiamento è ormai in atto, l’approccio del dispositivo si fa meno rapsodico, fino ad ammorbidirsi gradualmente attorno a Cléo e Antonio, per sfociare in un finale che, per quanto aperto, possiede i toni concilianti dell’happy end.

La divisione della pellicola in due parti è netta, ed è contrassegnata dal ritorno in strada della protagonista quale gesto di ribellione e rifiuto (altro topos cinematografico di Godard e compagni). Uscendo dalla casa e abbandonando i suoi amici, Cléo accetta la sfida di confrontarsi con il mondo, compie un gesto di estroflessione verso l’esterno che assume un essenziale significato di rinnovamento, soprattutto se si intercetta il sottotesto istruito dalla colonna sonora. L’ascolto della ragazza comincia a cambiare, la sua attenzione verso se stessa si attenua (3), per erompere in un’esigenza di esplorazione della realtà circostante, e ciò lo si evince proprio grazie alle variazioni sonore che caratterizzano la sua passeggiata. Si pensi all’organetto suonato dal bambino: quelle poche note si trasformano pian piano in musica extradiegetica, quasi a voler sottolineare, in questo spostamento oggettivante della prospettiva uditiva, l’impellenza della protagonista di mettersi in contatto con un’esteriorità fino ad allora ignorata (la sua sortita pare un’esplorazione di un territorio ignoto, pur trattandosi del quartiere in cui abita e che più volte ha percorso). Non è casuale, infatti, che l’inversione di tendenza avvenga al termine di una prova canora, ovvero in ragione di un gesto sonoro che aveva segnato inequivocabilmente l’orientamento dell’interesse altrui verso di lei. Successivamente, al bar, mette una moneta nel jukebox ed è ancora la sua voce che si ode in uno dei suoi successi canori; Cléo scruta i volti, ma soprattutto origlia i discorsi della gente, ne registra le sofferenze e le noie e ne subisce l’indifferenza, profondamente colpita perché nessuno (come ammetterà anche in seguito) presta attenzione al brano musicale, nessuno si interessa a lei. Il processo di messa in crisi della protagonista trova, pertanto, piena convalida nello slittamento del piano d’ascolto, che le dischiude angolazioni che non la comprendono più e svelano un mondo che non è più incentrato sulla sua fama.

Rispetto alla visita del primo caffè, in cui prevaleva un distratto vagare dell’orecchio verso le parole provenienti dai tavoli attigui, la focalizzazione vocale diventa ora fardello, e si produce in un disagio emblematicamente configurato come una discrepanza sonora tra la sua voce, rappresentata dal brano che prosegue inascoltato, e il vociare brulicante degli avventori del bar, per poi sfociare in un silenzio ancora più eloquente. Cléo è ormai isolata e prova a trovare conforto in un’amica, ma risolverà tale stato solo incontrando Antonio, l’unico che sarà davvero disposto ad occuparsi di lei, ad ascoltarla nella sua nudità di donna, ormai spogliata dalle frivolezze e vezzosità del divismo.

Note:
(1) Cfr. Renzo Gilodi, Nouvelle vague: il cinema, la vita, Effatà, Torino 2007, p. 132.
(2) Cfr. Sara Cortellazzo, Michele Marangi (a cura di), Agnès Varda, E.D.T, Torino 1990, p. 58.
(3) “[…] Quel che conta è la rinnovata voglia di resistere di Cléo, la quale, per la prima volta, si è lasciata scorrere dentro la vita, senza distrarsi. O meglio, per la prima volta, si è distratta da sé, dal soffocante vuoto del proprio narcisismo”. Piera Detassis, L’onda violenta, in Agnès Varda, op. cit., pp. 7-8.

Titolo originale: Cléo de 5 à 7; Regia: Agnès Varda; Sceneggiatura: Agnès Varda; Fotografia: Paul Bonis, Alain Levent, Jean Rabier; Montaggio: Pascale Laverrière, Janine Verneau; Scenografia: Jean-François Adam, Bernard Evein, Edith Tertza; Costumi: Alyette Samazeuilh; Musiche: Michel Legrand; Produzione: Ciné Tamaris, Rome Paris Films; Distribuzione: Interfilm; Durata: 90 min.; Origine: Francia/Italia, 1962

 


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