TFF 28/Qu'est ce que un festival? PDF 
Andrea Mattacheo   

Da quando la direzione del Torino Film Festival è diventata un parcheggio per importanti registi in crisi di mezza età, quella che non molto tempo fa era una rassegna caratterizzata dalla ricerca – talvolta ostentata ma comunque sincera – si è trasformata in una vetrina per prodotti di buona qualità “pescati” nei vari festival internazionali. Il concorso è un ottimo strumento per osservare un cambio di rotta che lascia però molti dubbi, in particolar modo se valutato in prospettiva futura. Liberata dall’onere dell’anteprima mondiale, la sezione competitiva del TFF ha proposto anche nell’edizione 2010 una serie di opere dalla “confezione” medio-alta, salvo qualche eccezione. Inoltre, come già era successo l’anno scorso, senza l’ingombrante presenza di Nanni Moretti e alle dipendenze di un più passivo Gianni Amelio, Emanuela Martini ha fatto scelte che riflettono un panorama cinematografico abbastanza ampio, includendo generi, temi e stili differenti ed evitando così la chiusura negli spazi intimisti e claustrofobici dei due festival “morettiani”. Una selezione pur attenta e di larghe vedute, che ha deciso però nuovamente di seguire strade sicure, dirette senza incertezze verso destinazioni già tracciate da altri. Sono non a caso i solidi binari del cinema di genere, sebbene declinato in maniera molto diversa e con esiti spesso opposti, a caratterizzare il concorso di quest’anno. La commedia e il noir, in particolare, sembrano essere le due tendenze più significative dell’edizione numero 28 del Torino Film Festival, se è vero che oltre metà dei film in concorso sono più o meno ascrivibili a queste due macroaree.

“Ci sarà da ridere” aveva detto Amelio durante la conferenza stampa di presentazione torinese. Tuttavia, ci sono modi diversi di usare l’ironia e nessuno di quelli visti è sembrato abbastanza efficace da arrivare in profondità. Con la parziale eccezione di  The Infidel, che racconta la crisi mistica di Mahmud (un bravo, a tratti esilarante Omid Djalili, premiato come miglior attore), musulmano non troppo praticante che scopre le proprie origini ebraiche. Attraverso questa particolare “educazione religiosa”, il film di Josh Appignanesi ci mostra, con tono leggero e senza cadere nell’ovvio, l’inconsistenza degli stereotipi culturali e di qualunque dogma fondamentalista, sia esso islamico, ebraico o di altro tipo. E riesce a farlo tenendo il ritmo alto per un’ora abbondante, pur con qualche incertezza nei momenti in cui si prende troppo sul serio, crollando poi però su sé stesso proprio quando dovrebbe tirare le conclusioni, in un finale così poco plausibile da sembrare una presa in giro all’intelligenza dello spettatore.

Sulla stessa linea si colloca Four Lions di Chris Morris, film che ha l’ambizione di affrontare il terrorismo islamico con toni da commedia demenziale, ma che genera solo imbarazzo. Non si vogliono qui aprire discussioni sull’opportunità del riso di fronte alla morte o dissotterrare cadaveri “rivettiani” sulla moralità di un carrello: a rendere imbarazzante Four Lions sono l’inconsistenza televisiva dei suoi personaggi e della sua struttura. I quattro protagonisti, terroristi imbranati in cerca di un obbiettivo da colpire, sembrano usciti da un programma satirico di infimo livello e la costruzione narrativa non è che un susseguirsi di buffe scene in stile Funniest Americans’ Home Videos. Si può ridere di tutto solo se si hanno rispetto e compassione per i difetti, i vizi e le debolezze degli uomini. Morris, invece, mette in scena la sua storia con la sensibilità e il senso estetico di un adolescente che “posta” filmati idioti su Youtube. Rimane a galla sulla superficie delle cose, accontentandosi di indurre la risata attraverso bassezze verbali, esplosioni di pecore e costumi da tartaruga ninja. Usa l’ironia come arma di autodifesa, per nascondere e nascondersi, semplificando e sminuendo il reale ed evitando così di confrontarsi con la sua stratificata complessità.

Dovrebbe far ridere anche l’altro film inglese in concorso, Soulboy di Shimmy  Marcus, conflitto di classe in salsa musical che però non è mai in grado di andare oltre gli stereotipi con cui gioca: l’eroe proletario in fuga da una realtà grigia, la biondina snob, la sorella dell’amico innamorata di lui, la scelta finale … La scrittura troppo facile e la regia piuttosto patinata di Marcus non riescono a portare “altrove” un film dove tutto ha il sapore del già visto. Ed è una commedia, malgrado il titolo fuorviante, anche Vampires di Vincent Lannoo, che servendosi di una delle forme più abusate dal cinema contemporaneo, il mockumentary, porta sullo schermo la paradossale storia di una famiglia di vampiri ambientata nella monotona quotidianità di una città belga. Un esperimento interessante, se si pensa alla stupida piattezza con cui è stata declinata la figura del vampiro negli ultimi anni. Interessante soprattutto quando cerca di farsi metafora politica attraverso alcune trovate intelligenti: i sans-papier serviti dalla polizia locale come pasto, i problemi del lavoro e dell’integrazione per i “non morti”. Purtroppo però la carica del film si esaurisce presto, la leggerezza e lo stile agile del “fintodocumentario” diventano fastidiosamente vacui. Perché a mancare alla narrazione è proprio “l’elemento vampiresco”, ridotto a luogo comune piuttosto sterile sulla vita nella morte. Non c’è alcun fascino perturbante nei protagonisti di Vampires, forse per questo dopo i primi venti minuti sembra aver già detto tutto quello che aveva da dire.

Non si capisce bene, invece, se voglia far ridere oppure commuovere Las Marimbas del Infierno, del regista di Gasolina Julio Hernández Cordón, a sorpresa premio della giuria e Cipputi per il miglior film sul mondo del lavoro (non troppo meritato). La vicenda del suonatore di xilofono Don Alfonso, alla ricerca di una nuova via per la sua musica e per la sua sopravvivenza, vorrebbe avere un respiro surreale, ma rimane nel mezzo, indecisa se essere drammatica o farsi comica. Avrebbe  potuto forse diventare un buon documentario, come dimostra il pianto in apertura di Alfonso Tunché, il protagonista: le sue sono lacrime potenti e reali. Evitando però di scegliere una strada e sorretto da una scrittura quasi inesistente, il film non riesce mai a colpire davvero, divertendo solo attraverso la stranezza degli interpreti, su tutti “il Blacko”, medico, ex satanista, ora giudaico-evangelista che recita messa in ebraico antico pur non capendolo. Cordòn ha la giusta (com)passione per i suoi personaggi, a mancare è pero l’attenzione nello strutturare il loro dramma, che senza scheletro finisce con il perdere molta della sua forza.

Il noir è l’altro contenitore concettuale nel quale si possono inserire almeno quattro dei film in concorso. Partiamo da quelli che noir lo sono più apertamente, pur agli antipodi per stile e qualità. Henry di Alessandro Piva, unico italiano, del quale si sarebbe fatto volentieri a meno (premio del pubblico). Dentro il film di Piva ci sono tutti i danni che il “tarantinismo” e  i poliziotteschi anni Settanta possono fare, tutta l’impotenza del cinema di genere italiano contemporaneo, tutta l’incapacità di trasfigurare la realtà attraverso una costruzione narrativa forte. Henry è appiattito su standard da cattiva televisione, simile ad una puntata di Distretto di polizia, con l’aggravante di voler “fare sul serio”: le talking heads dei protagonisti che di tanto in tanto appaiono, pretendendo di fare da contrappunto filosofico alla vicenda e sputando invece solo massime di una sconcertante banalità. Nemmeno il finale, che pure aveva del potenziale drammatico, lo salva. Quel cerchio di varie umanità che si scontrano sul tetto di una periferia romana malata implode in una conclusione intrisa di fastidiosa retorica familista.

Tutt’altro discorso va fatto per Small Town Murder Songs, sicuramente tra le cose migliori viste quest’anno a Torino (vincitore del premio Fipresci). L’indagine di Walter, poliziotto dal passato oscuro e violento, sull’omicidio di una ballerina di lap dance, viene frammentata da Ed Gass-Donnelly in quattro capitoli dal titolo biblico e scandita dai profondi gospel dei Bruce Peninsula. La freddezza e il rigore stilistico affascinano e caratterizzano magnificamente l’ambiente messo in scena dal regista canadese. Gass-Donnelly racconta con notevole finezza registica la comunità mennonita dell’Ontario: chiusa, lacerata al suo interno da silenzi, paure e troppe cose mai dette. Small Town Murder Songs fa quello che un buon noir dovrebbe fare, porta in superficie il rimosso, quella violenza atavica che si nasconde dietro volti e luoghi insospettabili. L’unico dubbio che rimane, guardandolo, è quanto ciò che viene a galla sia abbastanza forte, quanto il lasciare così nell’ombra i fantasmi dei protagonisti, soprattutto di Walter, non sia un modo per mascherare una certa incapacità nel dare spessore alla propria storia. La sensazione che resta dopo l’ultima bellissima immagine – un nastro rosso e bianco che sventola sospeso nell’aria – è di essersi trovati di fronte ad un ottimo prodotto ma di maniera, forse un po’ vuoto.

Anche Winter’s Bone di Debra Granik (meritatamente premiato come miglior film) scava nelle viscere di una terra un tempo popolata da mitologiche figure western, delle quali restano solo vecchie canzoni, e ora  abitata da persone il cui destino è cupo come il cielo che sta sopra le loro teste. La struttura del noir si articola qui in maniera dialettica, continuamente richiamata e negata. La scrittura di Granik e Rossellini è sapiente e precisa nel preparare svolte che puntualmente vengono disattese: nel Missouri, periferia eppure cuore dell’impero americano, non c’è possibilità per nessun reale cambiamento, tutto è così e così deve rimanere. E allora Ree, la protagonista (Jennifer Lawrence, perfetta e premiata) può solo difendere con tutte le sue forze quel poco che ancora ha: la casa, topos americano, barriera eretta contro la crudeltà della wilderness, minacciata  oltre che dai coyote ora anche da altrettanto famelici ufficiali giudiziari. Le rimarrà però alla fine  solo la nota stonata di un banjo rotto, che urla con la forza tragica di un canto disperato. Niente di nuovo si potrà dire, forse la solita storia di degrado, ma con un’asciuttezza, un equilibrio e una profondità capaci in più di un occasione di prendere davvero allo stomaco. Non è  un noir a tutti gli effetti nemmeno l’altro film americano, White Irish Drinkers. E che cosa sia non deve probabilmente essere chiaro neanche al regista John Gray, che ammassa una serie di temi narrativi dal sapore “scorsesiano” senza decidersi a trattarne uno con la dovuta attenzione, e finendo con il proporre un ritratto di violenza familiare e sociale piuttosto stereotipato, superficiale e a tratti fastidiosamente retorico. La piattezza dei personaggi e lo sviluppo della trama delegato ai soli dialoghi impediscono vera adesione ad un dramma criminale scritto e diretto con  stile da serial di basso livello.

Ci sono poi quattro film che potrebbero essere raggruppati in un ipotetico genere “da festival”. Ovvero storie di solitudine, dolore, silenzio e morte, di quelle che più o meno si vedono in ogni sezione collaterale ai concorsi importanti. Glückliche Fügung/Blessed Events di Isabelle Sever ne è probabilmente l’esempio peggiore. La regista tedesca precipita nel vuoto su cui vorrebbe costruire il proprio film e tra le ellissi narrative che ne segnano lo sviluppo sembra non esserci davvero nulla. La solitudine, lo squallore e poi l’esile speranza nella vita della protagonista, vengono affogate  in una messa in scena che vuole essere raffinata ma è troppo fredda e in una scrittura che guarda ad Aki Kaurimaki risultando però soltanto inconsistente e scivolando spesso nel ridicolo. Funziona un po’ meglio Les Signes Vitaux (premio della giuria), altro film dallo sguardo algido, al quale però si accompagna un notevole pudore, sempre necessario nell’affrontare una materia delicata come la morte. Sophie Deraspe ci mostra il viaggio di Simone nell’inferno terribilmente umano dei malati terminali, senza cercare una facile compassione ma scavando lentamente tra le pieghe del tempo, raccontandoci con sensibilità il suo incedere affascinante e crudele. Les Signes Vitaux rischia però di vanificare quanto di buono raccontano le sue immagini con una costruzione narrativa che lascia perplessi: così poco attenta nel delineare la storia d’amore che dovrebbe sorreggerla e quasi ricattatoria nell’abusare del dolore di Simone (orfana, mutilata, sola). Il suo è un dramma caricato fino all’inverosimile, al quale risulta quasi impossibile credere e aderire.

Il dolore e la morte sono al centro anche del sino-giapponese Last Chestnuts, prodotto da Naomi Kawase e parte del progetto NARAtive,  una raccolta di “piccole tragedie” che si  nascondono sotto la superficie spessa della quotidianità. È proprio questa tensione minimalista quel che di più interessante c’è nel film di Zhao Ye. Una madre, senza nome e malata, alla ricerca del figlio perduto per sempre, raccontata con delicatezza, senza eccessi, guardando altrove per far emergere il vuoto di un personaggio che porta sul volto i segni della propria sofferenza. Il limite, non da poco, sta però nello svelarsi del dramma, nel suo essere improvviso, immediato, troppo veloce per preparare degnamente ad una scena conclusiva che poteva acquistare una forza quasi epifanica. Forse la durata imposta di appena 60 minuti ha eccessivamente limitato un film che avrebbe meritato di prendersi uno spazio più ampio. Un'altra “piccola storia” è Por Tu Culpa  di Anahí Berneri, regista argentina che indaga con occhio ostinatamente attaccato ai suoi personaggi le colpe di madri distratte e padri assenti. Se nel primo quarto d’ora il film di Berneri funziona, grazie soprattutto a uno sguardo ravvicinato, disturbante e  capace di creare notevole tensione, con il passare dei minuti si spegne, ripetendosi e finendo con il sembrare abbastanza scontato. La violenza sottile della vita familiare borghese, sepolta sotto quintali di oggetti-feticcio, non esplode mai e tutto si risolve in una conclusione facile, un po’ moralista ed eccessivamente crudele, nella quale il figlio viziato spara con la sua pistola giocattolo alla madre (Erica Rivas, piuttosto “in parte” e premiata dalla giuria)

Rimangono poi tre film, due dei quali sono gli unici dichiaratamente “politici” all’interno di un concorso non molto “schierato”. Il terzo è  difficilmente collocabile ma pone, al di là del suo aspetto fastidiosamente mainstream, alcune domande di grande interesse. The Bang Bang Club è la storia di quattro fotografi d’assalto nel Sudafrica degli ultimi, violentissimi, mesi di apartheid. I difetti, evidenti in particolar modo nella prima ora di film, sono la scelta di David Silver di raccontare una storia corale senza avere la forza narrativa necessaria per farlo e soprattutto un inspiegabile compiacimento nell’essere patinato. Detto ciò, The Bang Bang Club mette al centro della sua riflessione, e lo fa piuttosto bene almeno nella seconda metà, una questione fondamentale oggi: il ruolo del testimone. Testimone nell’accezione moderna del termine è colui che rimane soldato quando la battaglia è ormai finita. Se non c’è però la possibilità di combattere, quelli che testimoniano chi sono? Possono ancora esistere? Tornano ad essere martiri? (dal greco μάρτυς, che significa appunto testimone). Il singolo nella società occidentale, come i fotografi del “Club”, può solo testimoniare l’ingiustizia ontologica su cui questa si fonda, porvi rimedio è una prospettiva  ormai drammaticamente irreale. Questo è lo scandalo cui mettono di fronte le foto di Kevin Carter & Co.  La loro immagine e le loro immagini sono inaccettabili se non si vuole ridiscutere  un intero sistema di valori.

Gli altri due film sono entrambi politici perché definiscono un sistema di opposizioni e vi prendono poi parte, stando però agli antipodi per scelte etiche ed estetiche. Ciò che li rende antitetici è il modo in cui scelgono di  mettere in scena una presa di posizione. Il primo, Portretul Luptatorului La Tinerete/Portrait of the Fighter as a Young Man, è  un buon esempio di quanto sia difficile per un regista che viene da un paese dell’est mostrare l’orrore dell’occupazione sovietica senza eccessi drammaturgici (si pensi al recente Katyn). Popescu vorrebbe raccontare i partigiani rumeni come giovani uomini, ma attraverso una struttura drammatica e dei dialoghi terribilmente retorici finisce con il trasformare i suoi combattenti in caricature alla John Rambo. Funziona anche meno la sequenza interminabile di torture e siparietti burocratici stalinisti a cui ci costringe, che non porta da nessuna parte, annoia e peggio ancora ricatta, arrivando a essere quasi pornografica. Il secondo, Les Hommes Debout, è un’elegia per la lunga fine del Novecento, composta da quelli che meglio di chiunque altro possono recitarla: operai e migranti. I fantasmi del secolo delle masse, uomini a milioni che partono e lavorano, sudano e scappano, muoiono e rinascono … Costruito attraverso  un uso rispettoso, asciutto e mai fine a se stesso del materiale d’archivio, che serve da solida base a due storie di contemporanea solitudine, raccontate con rispetto e senza scadere in facili lirismi. Certo Gravayat si concede qualche momento di eccessiva “poesia”, forse stonato, ma perdonabile all’interno di una messa in scena che asseconda magnificamente i personaggi, lasciandoli parlare  eppure accompagnandoli verso una strada sfumata ma chiara.

E sono proprio Les Hommes Debout e il vincitore  Winter’s Bone le due pellicole che riassumono al meglio questo Torino Film Festival. Film di elevata qualità, quello di Gravayat anche sorprendente, che però non appartengono in alcun modo al TFF. Sono entrambi scoperte di altri laboratori (un buon concorso dovrebbe essere soprattutto un laboratorio). La loro cifra è evidente: quella del Sundance nel caso del film di Debra Granik e quella di certi doc-festival francesi per Les Hommes Debout (nello specifico il FID). Questi, come tutti i film visti a Torino, rappresentano tendenze più o meno interessanti, ma non hanno un “anima torinese”, perché il TFF l’anima sembra averla un po’ smarrita. Sorgono allora, quasi spontanee, alcune domande conclusive: a cosa serve un festival? A esporre o a scoprire? A chi deve dare visibilità? Alle code fuori dai cinema oppure a quegli autori ai quali altrove viene negata? Cosa significa essere marginali? Avere paura o riconoscere onestamente quale posto nel mondo ci è stato lasciato e quindi essere coraggiosi? Le risposte dipendono da quale visione del cinema e, a voler essere “truffautiani”, da quale visione del mondo si sceglie di avere.

 


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