Will Graham (William Petersen: Vivere e morire a Los Angeles; The Skulls; CSI - Crime Scene Investigation) è un agente dell'FBI in congedo che ha lasciato l'agenzia investigativa a seguito delle ossessioni psichiche scatenate dalla spietata caccia e dalla conseguente cattura di Hannibal Lektor, serial killer cannibale. In assoluto contrasto con il mondo che lo circonda, Will accetta comunque l'invito del vecchio boss Jack Crawford (Dennis Farina: Salvate il soldato Ryan) a rientrare nella squadra per inseguire un nuovo spietato maniaco dai macabri rituali, soprannominato Dente di Fata (Tom Noonan: Robocop 2; The Astronaut's Wife). Al fine di catturarlo l'agente non esiterà a rivolgersi al Dottor Lektor (Brian Cox: Braveheart; The Ring; The Bourne Identity; The Bourne Supremacy; Troy) che, dal manicomio criminale in cui è stato rinchiuso, lo spingerà a identificarsi quasi totalmente con gli aspetti più celati e malati dello spietato assassino.

Basato sul romanzo Drago Rosso di Thomas Harris (da cui è stato tratto il recente e ben più conosciuto remake Red Dragon) e vissuto all'ombra dell'interessante ma meno riuscito Il silenzio degli innocenti (in cui il nome di Hannibal ritorna all'originario Lecter anziché Lektor), Manhunter - Frammenti di un omicidio è forse il film più rappresentativo del regista Michael Mann (Strade violente; Heat - La sfida; Insider; Ali; Collateral), reduce all'epoca dai fasti del serial tv Miami Vice, e rappresenta una delle anomalie epocali all'interno del sistema Hollywood. Mann, sostanzialmente, modella la materia fornitagli da tanto cinema di genere, soprattutto poliziesco, per riformare a livello estetico-formale una creatura che appare solo più tangenzialmente venata dai canoni del noir classico. E in quest'ottica si inseriscono, scomodi, i protagonisti, non più macchiette recitative, bensì personaggi finalmente tridimensionali. Il film è sorprendente e spiazzante proprio alla luce della sua forma e sostanza. Il taglio visivo che pervade lo schermo e che ancora oggi influenza la fotografia di una serie infinita di pellicole, ci offre angolature di ampio respiro in cui i protagonisti sono speso confinati a lato dell'inquadratura. Nondimeno il fitto gioco di specchi e di ombre a cui assistiamo risulta fondamentale tanto quanto l'uso sapiente e assolutamente originale dei colori - grazie al pregevole lavoro di Dante Spinotti, con cui Mann instaurò una proficua collaborazione - tesi a identificare un sentimento o il campo d'azione (il bianco per delineare il mondo asettico e distaccato in cui è confinato Lektor; il rosso e il verde per rimarcare la violenza che pervade luoghi e azioni del killer; il blu, affascinante ma certo pericoloso, per tratteggiare il mondo apparentemente sicuro della sfera familiare dell'agente Graham). La tavolozza dei colori, con le sue tinte sature, funge da ragnatela in cui imbrigliare due personalità confuse e confondenti.

Infine, un ultimo ma doveroso cenno all'identificazione agente-killer, felice ispirazione di questo film e dei suoi epigoni. Essa funziona efficacemente anche a livello protagonista-regista-audience: Will studia la scena del crimine fornendo vividi e morbosi dettagli di forme e colori proprio come il regista ci incalza nell'analisi formale dell'immagine. Il film diventa così terreno fertile e stimolante su cui (ri)costruire morbosamente quel puzzle che è naturale prolungamento della materia cinematografica.