Wim Wenders conosce molto bene la riflessione di Roland Barthes sul mezzo fotografico. Per un regista sempre teso all'esplorazione dei meccanismi di riproduzione dell'immagine La camera chiara è un riferimento teorico costante, imprescindibile. In Palermo Shooting diventa addirittura ossessivo. La volontà di riuscire a tradurre per immagini il pensiero dello scrittore e semiologo francese sulla metafisica della fotografia risulta però essere fin troppo programmatica. Ne La grana della voce Roland Barthes scrive: “Se si vuole veramente parlare della fotografia su un piano serio, bisogna metterla in rapporto con la morte. È vero che la foto è un testimone, ma un testimone di ciò che non è più. Anche se il soggetto è sempre vivo, è un momento del soggetto quello che è stato fotografato, e quel momento non è più. E questo è un trauma enorme per l’umanità e un trauma rinnovato. Ogni atto di lettura di una foto, e nel mondo ce ne sono miliardi in una giornata, ogni atto di cattura e di lettura di una foto è implicitamente, in maniera rimossa, un contatto con ciò che non è più, vale a dire con la morte. Credo che sia così che si dovrebbe affrontare l’enigma della fotografia, così almeno io vivo la fotografia: come un affascinante e funebre enigma.”
Per Roland Barthes l'essenza dell'immagine fotografica, il suo noema, è la sua forza documentale, cioè la sua capacità di afferrare un attimo e immobilizzarlo. È quello che fa il protagonista di Palermo Shooting, Finn, rampante fotografo disposto troppo spesso a sacrificare il proprio talento artistico per cedere alle lusinghe e ai richiami dell'effimero mondo della moda. Finn è un personaggio tormentato che preferisce vivere superficialmente la vita piuttosto che cercare di dare un nome alla propria inquietudine. Egli intravede nelle proprie fotografie una sorta di fondo, di abisso, di negativo impresso, e cerca di sfuggirvi manomettendole e rifugiandosi in un'esistenza votata all'apparenza. Ma come Leopardi ricorda, la moda e la morte sono sorelle, figlie entrambe della caducità. La prima favorisce la seconda, mettendo in uso pratiche che fanno morire più in fretta, anzi, che fanno vivere essendo già morti. A permettere a Finn di realizzare questo sarà il classico evento traumatico che lo costringerà a rallentare i ritmi e fare i conti con i propri spettri.
Palermo Shooting vuole essere una riflessione sulla morte e sulla fotografia, su come quest'ultima risulti falsa a livello di percezione, ma vera a livello di tempo. Riuscire a fermare il passato non significa salvarlo in una presenza vitale, ma cogliervi il segno imperioso della morte futura. Premesse affascinanti, anche se un po' datate, che però rimangono tali. Wenders svilisce il proprio soggetto con snodi narrativi a tratti ridicoli. Per mostrarci il mondo stordente e inebriante che è solito vivere il protagonista il regista ricorre a situazioni ormai viste ripetutamente. Le giornate di Finn sembrano essere soltanto un dove andare a ballare, e a chi telefonare. Telefono che è una vera e propria interfaccia per mezzo della quale il protagonista si rapporta al mondo. Tutto passa da lì: i suoi contatti, la sua musica, anche quello che vede è spesso filtrato attraverso il proprio cellulare. Presenza opprimente e ingombrante, anche per lo spettatore (product placement?). Il pretesto che porta Finn a scegliere Palermo come meta del suo viaggio è molto debole e poco convincente, ma la sequenza più risibile è quella del dialogo con la Morte, un Dennis Hopper di bianco vestito e cranio rasato che disquisisce sull'esistenza e sulla fotografia. Qui l'urgenza di Wenders di risultare chiaro e inequivocabile lo porta a cadere nella più totale banalità. Per bocca della Morte il regista lancia un grido d'allarme contro la dubbia autenticità delle immagini digitali e la loro "immortalità". Ma così facendo il regista diventa bersaglio del suo stesso ammonimento, avendo egli realizzato il film proprio con la suddetta tecnologia. Tutte gli inserti onirici sono vistosamente manipolati in fase post-produttiva con effetti peraltro di dubbio gusto: si passa da soluzioni che evocano il sogno espressionista de Il posto delle fragole di Bergman, a deliri compositivi alla Escher, a stravolgimenti dimensionali degni di Alice nel paese delle meraviglie.
Palermo, con le sue funeree e drammatiche architetture barocche, decorate coi memento mori, e i suoi vicoli che portano ancora i segni di un'atavica povertà, poteva essere la giusta location per condurre una riflessione attorno alla morte, ma stranamente Wenders non rende giustizia a questo straordinario potenziale architettonico. Stranamente perché uno dei grandi meriti riconosciuti al regista tedesco è proprio quello di riuscire, attraverso la macchina da presa, a far affiorare la storia dei territori raggiunti ed esplorati col proprio sguardo partecipe. Wenders realizza sequenze sempre fotograficamente eleganti, ma che restituiscono un immagine di Palermo troppo folkloristica. Il regista qui sembra aver perso la leggerezza con cui era solito muovere la m.d.p., come se la morte raccontata condizionasse il suo stile registico. A rendere ulteriormente greve la visione è la recitazione di Giovanna Mezzogiorno, che, probabilmente investita dalla gravità del soggetto, adotta un'espressione tesa e ostile per quasi l'intera durata del film, e ogni volta che deve pronunciare una battuta indugia, si trattiene come se stesse per dire chissà quale verità assoluta.
Palermo Shooting è un film disordinato nella forma, confuso e presuntuoso nelle affermazioni e nelle ambizioni, insieme scaltro e riduttivo. Dispiace essere spettatori della deriva di Wenders.
TITOLO ORIGINALE: Palermo Shooting; REGIA: Wim Wenders; SCENEGGIATURA: Norman Ohler; FOTOGRAFIA: Franz Lustig; MONTAGGIO: Peter Przygodda; MUSICA: Irmin Schmidt; PRODUZIONE: Germania/Italia; ANNO: 2008; DURATA: 106 min.
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