Festa del Cinema di Roma, II atto: per non essere vittime dello spettacolo PDF 
Enrico Maria Artale   

ImageLa seconda edizione della Festa del Cinema di Roma è stata senz’altro un successo. Da un punto di vista commerciale lo dicono le statistiche, da un punto di vista più strettamente cinematografico lo hanno detto fino alla noia gli organizzatori, che sentivano in qualche modo di doversi difendere dalle accuse e dalle critiche ricevute in questi anni: ma questa ripetuta e alla lunga nauseante autocelebrazione del versante istituzionale non poggiava, onor del vero, sul nulla, non era una distorsione propagandistica della realtà dei fatti. Perché alla Festa di Roma, per chi è riuscito a superare i pregiudizi iniziali e gli obbrobri organizzativi, cercando nei luoghi giusti, è stato possibile vedere molti, moltissimi film di valore. E il lussureggiante tappeto rosso visto da vicino non poteva che suscitare un’innocua ironia in chi cercava qualcosa di più sostanziale della sfilata divistica; ma senza arrivare propriamente ad un vero fastidio, cosa che forse ha potuto provare qualche spettatore seduto a casa, dove certi sfarzosi apparati televisivi risultano decisamente insopportabili. Ma per chi, come il sottoscritto è romano, e abita non lontano dall’Auditorium che è stato il fulcro della manifestazione, il periodo successivo alla Festa ha condotto a sorpresa verso un evento doloroso il cui stridente contrasto con quanto vissuto pochi giorni prima non può che gettare nell’amarezza.

ImageLa stessa zona in cui il cinema celebrava se stesso, e con esso le autorità competenti, dopo due settimane appena è stata teatro dell’omicidio di Giovanna Reggiani prima, poi dei durissimi scontri tra esponenti delle tifoserie capitoline e forze dell’ordine, in seguito all’assurda uccisione di un ragazzo di ventott’anni, Gabriele Sandri, in un autogrill lungo l’autostrada A1. Sulle stesse strade su cui sfilavano le limousine scure che portavano i personaggi illustri sul tappeto rosso si è verificata una delle situazioni più critiche, dal punto di vista dell’ordine pubblico, degli ultimi anni, almeno a Roma. Tra tutto ciò e la Festa del Cinema c’è un abisso; un abisso che però testimonia la distanza assoluta tra l’industria culturale e situazioni che non possono essere etichettate come fenomeni isolati, ma che fungono, per molti versi, da cartina di tornasole di quella che è la realtà sociologica di questa città e di questo paese. Un abisso che non ha diritto di esistere perché non riguarda direttamente il cinema, gli autori, i film, che come si è potuto vedere chiaramente dimostrano di voler registrare e interagire a pieno con la vita reale, a vario titolo, magari non sempre con esiti soddisfacenti. Tutto ciò è invece imputabile ai meccanismi dell’industria culturale che colloca il cinema in un contesto spettacolare e sensazionale assolutamente in collisione con i contenuti espressi, con le tendenze comprese e interpretate. Non si vuole mettere sotto accusa l’idea stessa della Festa, quale momento di gioia e partecipazione popolare in ragione anche, e come sennò, del divertimento; si vuole criticare un’idea di festival che, pur nell’intelligenza della selezione, rischia di trasformare tutto in un diversivo, in  un momento di fruizione avulso da ogni dinamica culturale e politica. Offrire al pubblico, che non ne ha bisogno, un contesto del genere è anche, in parte, un atto di irresponsabilità da parte delle istituzioni, in una ricerca di consenso che presuppone nel pubblico stesso nient’altro che il desiderio di distrarsi. Quando i film sembrerebbero dire tutt’altro.

ImageNon mi soffermerò a lungo sui film principali, quelli che usciranno normalmente nelle sale e sul quale sarà più facile trovare informazioni o commenti. Certo alcune battute sono irrinunciabili. A partire, per rimanere in tema con quanto detto fino ad ora, dallo straordinario film di Lumet, Before the Devil Knows You’re Dead, un film di rara radicalità, estremo, disperato, rassegnato, di una lucidità quasi insopportabile; un film sull’Occidente e sui suoi valori colti nel processo della definitiva disintegrazione: la famiglia, l’ambizione, il lavoro, l’amore. Anche la speranza di una mezz’oretta in paradiso, prima che il diavolo scopra che sei morto, è un’illusione, perché, come recita con semplicità disarmante una delle battute chiave: “the world is such an evil place”. Capace di incarnare in un personaggio, interpretato mostruosamente bene da Philip Seymour Hoffman, un’intera società, il film di Lumet da solo sarebbe sufficiente a far impallidire tutto il tripudio del festival. Ma è tutt’altro che solo. Restando sulla stessa lunghezza d’onda, ma in modo decisamente più moderato, vale la pena citare Reservation Road, apprezzabile lavoro del regista Terry George, ritratto di una società votata al dolore, in cui l’assurdità degli eventi mette in crisi il confine tra innocenza e colpevolezza; anche in questo caso determinante è il contributo di un attore, Mark Ruffalo, che forse meriterebbe di lavorare di più. Decisamente insufficiente negli esiti, ma altrettanto impegnato, come da tradizione, il film di Redford, Lions for Lambs. L’attore/regista ha fatto comunque la sua figura intellettuale quando alla conferenza ha dichiarato che il successo di un festival non andrebbe fondato sulle star ma che, con chiaro riferimento al Sundance, le star dovrebbero interessarsi ad un festival che ha guadagnato il successo attraverso la promozione dei nuovi talenti. Penosa in questo senso la difesa del direttore artistico di turno (in totale erano cinque) che ha spiegato come la presenza delle star è necessaria per la qualità dei film, perché le star sono dei grandi attori. Con Cruise sedutole accanto: da rimanere senza parole. Ad ogni modo la superstar della Festa non è stato Cruise, né tanto meno Redford, ma Walter Veltroni, che abbracciandoli entrambi ha posato per i fotografi in visibilio.

ImageAnche tre film italiani, tra quelli in concorso, non si sono mostrati affatto indifferenti alla complessità del reale, seppur con approcci molto differenti; da un lato Carlo Mazzacurati, acclamato da molti come possibile vincitore, il cui film La giusta distanza registra dinamiche sempre più inquietanti, in un’interessante progressione dai toni della commedia a quelli, decisamente più cupi, del dramma; dall’altra Emidio Greco, che torna sugli schermi con un film tanto difficile quanto attuale, L’uomo privato; l’attualità è tutta nei temi però, perché il trattamento degli stessi appare orgogliosamente inattuale, volutamente in controtendenza rispetto alle richieste del pubblico: un modo di fare cinema apprezzabile per la sua originalità nel panorama italiano e probabilmente destinato ad una futura rivalutazione. Infine il film di Capone, L’amour cachè, che affronta coraggiosamente un tema trattato raramente, cioè il sentimento negativo di una madre nei confronti della propria figlia. Questi sono solo alcuni dei titoli, tra i film di maggior richiamo, che dovrebbero sfuggire, per il rispetto della loro natura più intima, ad un contesto che ne svilisca ogni possibile impatto sulle menti dello spettatore relegandoli semplicemente a momenti di una più generale distrazione mediatica. Non mancano i film che hanno scelto altri toni, altre vie per relazionarsi alla realtà. Certo, anche le vie della commedia. Tra questi spicca il film meritatamente vincitore, Juno, un piccolo gioiellino firmato dal figlio d’arte Jason Reitman e dalla talentuosissima sceneggiatrice Diablo Cody. Un film che si segnala per l’originalità nell’affrontare questioni delicate come l’aborto, ma soprattutto, per una comicità incontenibile, miracolosamente triviale e raffinata al tempo stesso; un film che presumibilmente cavalcherà il successo recente di lavori come Little Miss Sunshine o Me and You and Everyone You Know, ma che cinematograficamente appartiene ad un livello decisamente superiore, con una freschezza stilistica e una sottigliezza psicologica nel mettere in scena un mondo giovanile che non impedisce di richiamare alla memoria uno dei migliori film americani degli ultimi anni, Elephant di Gus Van Sant. Resta da sperare che il doppiaggio italiano non polverizzi tutto, come è probabile che sia. Voi prevenite il problema: vedetelo in originale. Apprezzerete così anche la bravura dei giovani interpreti, tra i quali la minuta Ellen Page, che ha conquistato i giornalisti alla conferenza stampa.

ImageAltro premio, meritato del resto, è stato quello andato al film di Sean Penn, miglior film della sezione “Premiere”, un lavoro di grande respiro su uno dei temi cardine della cultura americana: la wilderness. Into the Wild è forse il film che ha ricevuto l’accoglienza migliore sia dalla stampa che dal pubblico, inutile soffermarcisi a lungo dunque. Di sicuro, questo va detto, Penn si presenta come regista assolutamente maturo, capace di non perdersi nella bellezza mozzafiato delle vedute americane, mantenendo invece un’attenzione sempre viva nei confronti dei personaggi, al punto da dipingere con pochi tratti alcune figure di spessore dall’affascinante sapore letterario. Per restare nell’ambito specifico della commedia è una sorpresa piacevole il film di Robert Davi, l’attore caratterista americano che firma il suo primo film da regista omaggiando molto ingenuamente, ma anche simpaticamente, l’Italia, attraverso una serie di luoghi comuni sugli italoamericani accompagnati dalla musica di Paolo Conte. Ma The Dukes, anche grazie all’ottima prova dei suoi interpreti (Palminteri su tutti) e a un’apprezzabile umiltà del progetto, si fa notare per l’unione sincera di amarezza e divertimento, che sfugge ad una tendenza sensazionalistica tipica della commedia americana (per questo non ha convinto tutti, perché siamo abituati a ritmi improbabili), per raccontare con sfumature impreviste non il successo trionfale, ma semplicemente la concretizzazione di una buona possibilità, dopo un estenuante serie di ostacoli più o meno superabili, più o meno divertenti. Il primo piano su un Bogdanovich triste, nell’allegro finale canoro, vale a mio avviso il film intero. Per quanto riguarda la cinematografia nazionale la commedia è uno dei generi che difetta maggiormente di qualità e innovazione, contraddicendo non a caso quelle che dovrebbero essere le caratteristiche storiche del nostro cinema. Segno della gravità della situazione. Basta citare in questo senso il brutto film di Calopresti, L’abbuffata, un film che parla di personaggi che non esistono, di un mondo che non esiste. Il Sud, la Calabria, e chi vi abita, sono ben altra cosa, per fortuna. Il divertimento bisogna un po’ andarselo a trovare, e i riferimenti che qualcuno ha fatto a Fellini erano francamente indigesti. Anche perché Fellini era idealmente presente alla Festa, tramite l’allestimento espositivo di alcune delle più belle pagine tratte da Il libro dei sogni, recentemente pubblicato da Rizzoli, il grande volume degli schizzi che il regista realizzò metodicamente tutte le mattine per un lungo periodo della sua vita. Ancora in atmosfera di festa del resto si è tenuta la conferenza stampa dove Tullio Kezich ha presentato il convegno dedicato proprio a Il libro dei sogni, tenutosi poi a Rimini dall’8 al 10 novembre. Convegno in cui tra l’altro è stato assegnato il Premio Fellini ad Ermanno Olmi.

ImageVorrei abbandonare adesso queste considerazioni un po’ generiche sui film di maggiore richiamo, dei quali peraltro si è già parlato ampiamente. Lasciando stare gli altri film in concorso, compresi i vincitori degli altri premi (una menzione rapida la merita però Hafez, film iraniano del regista Abolfazi Jalili, vincitore del Premio Speciale della Giuria presieduta da Denis Tanovic), meglio addentrarsi nella sezione “Extra” del festival, che come l’hanno scorso rappresenta la punta di diamante della manifestazione, per quanto i film che vi partecipano non siano minimamente promossi. Proprio questo è uno dei difetti più gravi della Festa di Roma, la mancanza di risonanza della sezione che dovrebbe invece rappresentare il fulcro culturale dell’evento. Del resto a causa di alcuni errori organizzativi di entità imbarazzante, (l’imbarazzo era il sentimento dominante in tutte le persone che lavoravano nelle strutture della Festa), la sezione “Extra” era quella cui era possibile partecipare con il minor tasso di stress. In questa sezione la maggior parte dei film di valore erano documentari, ma almeno un paio di film di finzione vale la pena citarli. Ci si aspettava molto, soprattutto tra i ragazzi, dal film di Adam Wingard, Pop Skull; la curiosità era dovuta alla giovanissima età dell’autore (ventitré anni) e alla sua relativa fama negli Stati Uniti. Ma il film è stato una delusione: alcune sequenze di montaggio interessanti (come quella finale), un clima allucinato e delirante molto intenso, una struttura lineare e frammentaria al tempo stesso; ci sono gli elementi per aspettarsi qualcos’altro da questo regista, ma la sensazione complessiva di muoversi in un orizzonte già ampiamente visto è un grave difetto per un film che aspira alla radicalità e all’innovazione. Sarebbe stata necessaria una dose maggiore di ironia, anche per evitare di essere involontariamente ridicoli, cosa che spesso accade. Ciò che invece ha imprevedibilmente entusiasmato molti, nonostante una programmazione non proprio di spicco, è stato il dittico del regista islandese Ragnar Bragason: due film, Born (figli) e Foreldrar (genitori), dedicati appunto ai rapporti familiari. Se il secondo, che hanno visto in pochi, è valso come conferma e arricchimento del discorso, il primo film ha rappresentato una delle rivelazioni della Festa (anche perché la Festa stessa non lo aveva pubblicizzato granchè, quando invece si tratta di uno dei film selezionati dalla commissione Europea). La storia di un picchiatore, non privo però di principi “morali”, deciso a costruire un rapporto con il figlio adolescente, che non lo ha mia incontrato, e che ha come unico amico un disabile. Una storia inquietante e violenta che evita nel migliore dei modi i luoghi comuni sui personaggi e nella tragicità degli avvenimenti riesce a trovare di volta in volta gli spunti per la poesia e per il divertimento, affidando a questi ultimi, in una scelta assolutamente azzeccata, la conclusione della vicenda. Gli stessi personaggi ritornano in Foreldrar, ma in posizioni marginali, per lasciare il posto ad una nuova duplice storia, quella di una madre che torna in Islanda per riallacciare un legame con il figlio, e di un uomo che vuole a tutti i costi diventare padre ma non sa che la moglie non può avere bambini. Anche in questo caso gli esiti saranno imprevedibili.

ImageIl rapporto tra genitori e figli è stato il vero filo conduttore della Festa, a testimonianza che il cinema si mostra quanto mai interessato ad indagare le problematiche derivanti da situazioni familiari anormali, sempre più comuni nella società odierna. Accennavamo a questa tematica ricorrente a proposito de L’amour caché, ma entrando ancor più nel particolare il compito più indagato è stato certamente quello della paternità, una paternità mancata, che in certi casi si vuole ricostruire, in altri si vuole tenere a distanza. Per diversi film questo è stato il tema principale, ciò attorno al quale ruota il soggetto: è il caso del dittico Born-Foreldrar appunto, ma anche di Reservation Road, o del film vincitore della sezione “Alice” (la sezione per ragazzi), Noonbushin Narae del coreano Kwang Su Park. Ma in un senso appena più marginale è presente anche nel film di Lumet, in quello di Penn, in Juno. A tanti è parso essere una coincidenza. Eppure se di coincidenza si tratta, come è probabile che sia, la cosa non è priva di significato, ma rende anzi possibile un’ampia riflessione sul tema che forse costituisce, magari involontariamente, il contributo complessivo più affascinante della Festa. Esiste in realtà un altro, più debole, filo conduttore, rintracciato soprattutto attorno al film Caotica Ana, di Julio Medem, e all’ultimo lavoro di Francis Ford Coppola, Youth Without Youth: in entrambi, infatti, il tema della reincarnazione ha colpito molto gli spettatori. Del film di Coppola preferisco non dire nulla; confesso di non averci capito molto (forse una lettura del libro sarebbe necessaria) ma ho troppo rispetto per il maestro americano per non pensare che ciò sia dovuto ad un mio limite. È un film su cui forse sarà il caso di ritornare in futuro. Se nella sezione “Extra” Born è il film che maggiormente invito a vedere, se ne avrete la possibilità, le segnalazioni da fare sui documentari sono senza dubbio più d’una. Restando in Islanda ha affascinato il progetto documentario Heima (casa), sulla musica dei Sigur Ros, seguiti nello loro stranissimo tour in patria che li ha portati a suonare in luoghi incredibili, di fronte a platee ridottissime, spesso composte dagli abitanti incuriositi dei villaggi adiacenti. Il regista canadese Dean De Bois ha avuto il merito di tenere in equilibrio l’aspetto musicale con quello propriamente naturale accompagnando lo spettatore in un duplice viaggio, uno straordinario poema audiovisivo: azzeccatissima in tal senso la scelta dell’alta definizione, con la sua fredda nitidezza. La musica del noto gruppo islandese si arricchisce di significati antichi e di scenari capaci di illuminarne gli aspetti più insoliti, fino al concerto finale di Rejkiavik che rappresenta idealmente il ritorno alle dimensioni e ai luoghi più classici della performance rock.

ImageIn qualche modo legato alla musica, seppur in uno scenario quasi opposto, per latitudine e condizione sociale, è il film War/Dance, che ha vinto il premio come miglior documentario d’impegno sociale: narra la storia di una scolaresca del nord dell’Uganda, la zona più colpita dalla guerra civile, che si deve preparare per un torneo nazionale in cui tutte le scuole del paese si confronteranno in prove musicali e di ballo. Il film si concentra su tre adolescenti raccontando la durezza delle loro storie sullo sfondo di quella possibilità di riscatto che la vita è in grado di offrire, in questo caso il progetto comune di partecipare e vincere il torneo nazionale. Un lavoro molto coinvolgente e visivamente toccante, capace di andare oltre il film di denuncia grazie alla complessiva positività della vicenda e al ritmo trascinante delle danze tradizionali. Un film di denuncia vero e proprio è invece l’acclamato Taxi to the Dark Side, di Alex Gibney, inquietante ricostruzione degli episodi di tortura sui detenuti perpetrati nel carcere militare di Abu Grahib, in Afghanistan, a partire dalla storia di un tassista afghano condotto senza motivo in carcere, torturato e ucciso da militari americani in virtù di una programmatica (è la tesi del film) mancanza di chiarezza sui comportamenti da seguire negli interrogatori. La forza del film sta soprattutto nel linguaggio adottato, simile al thriller per la tensione e le atmosfere. La denuncia assume toni ben più ironici nel film Manda Bala di Jason Kohn, un lavoro molto divertente che affronta questioni tra loro strettamente collegate nella capitale economica del Brasile: i frequenti rapimenti, le metodologie di ricostruzione chirurgica del lobo dell’orecchio (che nei rapimenti viene quasi sempre reciso; il chirurgo che vede in questa ricostruzione una missione di Dio è un personaggio indimenticabile), le misure di sicurezza adottate dai cittadini (al punto che San Paolo è la città col maggior numero di elicotteri), l’allevamento delle rane, la corruzione della politica, la situazione della polizia. Il grottesco è spinto all’estremo, e mette a dura prova la capacità di sopportazione dello spettatore (l’intervento chirurgico è mostrato per intero, nel dettaglio; la stessa cosa vale per la procedura di allevamento delle rane), ma trova in alcune sequenze dei momenti di comicità assoluta: è il caso di un poliziotto che mostra alla telecamera il proprio arsenale privato, o di un miliardario talmente ossessionato dalla sicurezza da desiderare due chip individuanti installati sotto la pelle: due, di due marche diverse, per alimentare la concorrenza e assicurarsi l’efficienza del prodotto. Un film strano, acuto per molti versi, ma destinato probabilmente a non avere sbocchi distributivi a causa dell’impostazione giornalistica.

ImageIl destino non sarà forse del tutto diverso per il vincitore del premio come miglior documentario, il geniale Forbidden Lie$ della regista australiana Anne Broinowski: protagonista è la scrittrice giordana autrice di un bestseller ispirato alla storia di una sua amica, rea di aver amato un cristiano e per questo barbaramente uccisa dal padre. La prima mezz’ora del film è dedicata alla ricostruzione dettagliata di questa storia, e del personaggio della scrittrice, diventata improvvisamente una stella del panorama letterario internazionale, soprattutto in ambito femminista; poi una rivelazione, come un fulmine a ciel sereno: non è vero nulla, o quasi… Tutto quel che succede dopo non è riassumibile: intrighi politici internazionali, viaggi, indagini, interviste, contributi filmati sviluppano un complesso labirinto in cui verità e finzione diventano irriconoscibili. La regista mette a confronto le persone sottoponendo ad ognuna, mediante video, la versione dei fatti altrui, in un continuo contraddirsi che alla fine, volutamente, assume proporzioni comiche (l’ex marito greco della scrittrice, invischiato in traffici piuttosto loschi, è una figura da far invidia ad uno sceneggiatore). Ciò che più di ogni altra cosa rende enigmatico ed estremamente coinvolgente il documentario è la continua presenza della scrittrice stessa, che noncurante di ricadute mediatiche negative si presta completamente al gioco: d’altra parte è anche vero che chi si è prestato al gioco, determinando la riuscita del lavoro, è proprio la regista, pronta ad intraprendere un viaggio in Giordania per ricercare tracce dell’esistenza di una donna fantomatica. Nella misura in cui il singolo caso eclatante mette in luce una serie di disfunzioni dei meccanismi ordinari, Forbidden Lie$ è un film illuminante sulla situazione mediatica mondiale. Chiudiamo questa panoramica sui documentari del festival con due lavori italiani, molto diversi tra loro. Il primo firmato da Saverio Costanzo, Auschwitz 2006, racconta il viaggio di una scolaresca romana nel campo di concentramento, in compagnia di alcuni superstiti pronti ad offrire toccanti testimonianze. Un lavoro molto onesto, in parte sulla linea iconoclasta del grande Shoah, di Claude Lanzmann, con questa attenzione per la testimonianza orale, in parte pronto ad affrontare le immagini dell’orrore, poche ma, addirittura, a colori. Emozionante la sequenza dei volti degli studenti ripresi davanti ai casermoni del campo, purtroppo resa per un momento ridicola, almeno per chi era attento al contesto della Festa, dal fatto che tra quegli stessi volti comparisse inaspettatamente Veltroni. Spiacevole la sensazione che un uomo possa avere il dono dell’ubiquità. L’altro documentario è Le pere di Adamo, di Guido Chiesa, un lavoro per certi versi geniale, che suggerisce un’analogia tra la storia dei movimenti politici e il processo di formazione delle nuvole, scoprendo che meteorologia e politica non sono affatto realtà irrelate, almeno da un punto di vista concettuale. Così, alla documentazione del movimenti dei precari dello spettacolo, in Francia, si accompagna il percorso realizzato con il metereologo Luca Mercalli, che illustra gli affascinati orizzonti della meteorologia, orizzonti che hanno portato alla formulazione delle teorie del caos; un terzo personaggio, il giovane Ian, musicista-matematico scozzese, apporta nuovi elementi nel tentativo di far quadrare imprevedibilmente il cerchio. Un film-saggio che crede in una pedagogia cinematografica basata sulla valorizzazione del dialogo tra più istanze e sulla partecipazione attiva dello spettatore al dialogo stesso. Estremamente intelligente in questo senso l’utilizzo del montaggio, cui Chiesa affida consapevolmente il compito di elaborare le strutturazioni di senso del documentario. C’è da sperare in una distribuzione decente, perché si tratta di uno dei pochi film italiani capace di registrare quell’esigenza di innovazione del documentario che in questi ultimi anni si sta mostrando come una tendenza generale.

In conclusione il giudizio sulla Festa è ampiamente positivo: sono stati premiati film di valore, in ogni sezione ci sono stati diversi film degni di attenzione, dalla “Premiere” (più ricca dell’anno scorso) fino ad “Alice nella città” (secondo molti, la sezione migliore in assoluto); gli incontri aperti al pubblico sono stati numerosi e interessanti: tra tutti il più atteso era quello con Terrence Malick, una delusone da un punto di vista strettamente cinematografico, ma solo per chi non ha colto nell’umanità del regista, nella timidezza e nella riservatezza del grande narratore, l’origine di quello sguardo profondo che oggi ha pochi eguali nel cinema mondiale. Ciò che si può rimproverare, oltre ad una serie di gravi errori organizzativi, è questo: l’aver eccessivamente relegato i momenti culturali più alti (il dibattito con Ghezzi, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, il convegno sugli eredi del Neorealismo cui hanno partecipato molti esponenti della cultura italiana, Ortoleva, Montani, De Gaetano, etc.) alla nicchia, con gravi carenze di informazione a riguardo, e con un’inaccettabile delocalizzazione; l’aver posto eccessivamente l’accento sull’aspetto divistico, spostando in secondo piano sezioni più impegnate come la “Extra”, e sminuendo la carica etica ravvisabile in molti dei film presentati. Se questo festival vuole veramente trovare una propria collocazione esclusiva, diversa da Venezia, da Cannes, da Torino, da Locarno, da Taormina, deve porre l’accento sul fatto che Roma, a differenza di queste città, è una metropoli complessa, che vede al suo interno situazioni sociali ben più difficili, come d'altronde testimoniano gli avvenimenti recenti. Questa città non ha bisogno di una celebrazione esagerata, invidiata agli altri festival e ispirata dagli americani, fatta di red carpet, badge, lounge, e quant’altro. Questa città ha bisogno di situazioni in cui ciò che è pensato in un’ottica “popolare” rappresenti l’occasione per un’interazione di spunti culturali differenti, un arricchimento, per un’autocomprensione e un ritrovamento della propria identità che contribuiscano a migliorare le condizioni di vita di chi vi abita. In questo senso il cinema può avere un ruolo che forse nessun’altra forma di espressione è in grado di ricoprire. A patto che la luce dei riflettori non ci accechi tutti.

 


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