"O faccio questo film o crepo". Cosí diceva Rossellini ogni volta che un’idea s’insinuava prepotente tra le pieghe della sua creatività. Ed è con la stessa veemenza che il regista di Roma città aperta arriva ad imboccare l’eroe dei due mondi, nel film che contribuí a raccontarne l’impresa: “O qui si fa l’Italia o si muore”. Era il 1961. Un secolo già era passato da quel Risorgimento che rese Nazione un puzzle di otto Stati. Eppure il cinema faticava a non rimanere incastrato nella stucchevolezza dell’autocelebrazione, congelata tra i frame di pellicole prossime al lirismo. Mancava la voce del popolo, quello che vestito di rosso partí da Quarto con una manciata di fucili da tiro. L’ambizione era immensa: abbandonare la doratura dell’idealismo, riportando i fatti per quello che furono. Un taglio neorealistico, insomma, che spinse Rossellini a titolare in un primo momento il film Paisà. Troppo per la critica dell’epoca, che poco prima della presentazione ufficiale costrinse il regista a tornare con i piedi per terra.
Viva l’Italia non è solo il grido col quale Rossellini si cimenta nel suo primo esperimento documentarista. La rigorosa adesione ai fatti storici è infatti uno degli elementi che hanno contribuito al successo di questa produzione, ma non il solo. La trama è incastonata tra il 5 maggio e il 26 ottobre 1861, ovvero quando Garibaldi confezionò un esercito di scapestrati (“Pare siano venuti a fare una scampagnata. Che gente!”), convinto di poter dare un’identità al Belpaese, liberandolo dall’occupazione straniera. Ci riuscì, e questo lo rese una sorta di Dio agli occhi della storia. Eppure, coraggio e, perché no, azzardo sono distorsioni dell’animo umano, pulsioni che partono dal basso, non dall’alto. Ecco perché il Garibaldi di Rossellini soffre di reumatismi e mangia formaggio poco prima di risalire il Pianto Romano nella battaglia di Calatafimi. Un uomo dunque, non un Dio, che s’inalbera alla vista della folla adorante (“Come vi ha ridotto la tirannia!”) e fatica ad arcionare il proprio cavallo.
L’intento di costruire un’opera didascalisca che riportasse con estrema oggettività quanto accaduto durante quella fatidica spedizione, può non essere riuscito al cento per cento, ma ha sicuramente un merito: quello di aver lasciato sul piedistallo i personaggi dei libri di scuola per scendere in strada e raccontare la visione di chi quel tempo l’ha vissuto davvero, perdendo il proprio nome nella sabbia. A questo serve il sacrificio della bella Rosa sulla costa calabrese o la traversata a nuoto dello Stretto da parte di una delle tante camicie rosse che hanno contribuito a trasformare un’utopia in vittoria. Per questo Mazzini, Crispi e perfino Dumas, non sono che comparse, mentre Cavour è un fantasma di cui si avverte solo l’aura. La scena è tutta per quei “Mille” che abbatterono i confini e le distanze parlandosi in dialetto e mordendo limoni per sconfiggere la sete e il dolore.
Cinquant’anni dopo, Viva l’Italia trova il proprio riscatto, apparendoci per quello che è: un regalo onesto e pulito, che restituisce l’Italia agli Italiani. Un elogio all’antieroismo, un inno che, proprio come quello di Mameli, non va cantato in pompa magna, ma sussurrato dietro a una barricata o bisbigliato assieme all’ultimo soffio di vita, prima che la morte e il tempo abbiano la meglio su di noi.
TITOLO ORIGINALE: Viva l'Italia; REGIA: Roberto Rossellini; SCENEGGIATURA: Sergio Amidei, Diego Fabbri, Antonio Petrucci, Roberto Rossellini, Antonello Trombadori; FOTOGRAFIA: Luciano Trasatti; MONTAGGIO: Roberto Cinquini; MUSICA: Renzo Rossellini; PRODUZIONE: Italia/Francia; ANNO: 1960; DURATA: 138 min.
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