Venezia 68 PDF 
Caterina Rossi   

Ventitre sguardi profondamente differenti. Ventitre finestre spalancate su mondi e visioni agli antipodi. Occhi che sanno realizzare lo sfuggente equilibrio tra riuscita estetica e potenza tematica, mischiati a sguardi autoreferenziali, chiusi, assenti. I vertici, la medietà e gli abissi. Come tutte le rassegne anche la 68a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia non ha fatto eccezione, proponendo un concorso in cui hanno convissuto visioni eterogenee e opposte, tra qualità e limitatezza, nomi di richiamo e conferme, scoperte e riscoperte. L’apertura del concorso è stata dedicata a Hollywood e alla star statunitense più amata dalle riviste di gossip e dai pubblicitari italici: Le idi di marzo (The Ides of March) di George Clooney, perfetto esemplare di cinema hollywoodiano contemporaneo medio, ha certamente contribuito ad avviare il festival con molto glamour, anche se Clooney non convince del tutto, ormai comodamente rilassato sul suo status acquisito di star. La corsa elettorale per la riconferma del governatore dell’Ohio Mike Morris (Clooney), tra spin doctors pronti a trasformarsi in squali (buone le interpretazioni di Ryan Gosling, Philip Seymour Hoffman e Paul Giamatti), qualche scandalo sessuale innescato dalla bella e giovane stagista Molly (Evan Rachel Wood), e l’ipocrisia della politica tra ricatti e corruzione, non sono argomenti che spiccano per originalità. Il regista orchestra bene gli attori, realizzando un perfetto prodotto commerciale, ma senza stupire, affidandosi alla trasparenza meccanica della narrazione.

Lo stesso problema riguarda anche la classica spy story La talpa (Tinker, Tailor, Soldier, Spy) dello svedese Tomas Alfredson, tratta dall’omonimo romanzo di John le Carré. Anche in questo caso il regista è interessato alla comprensione lineare della storia e a rispettare i meccanismi di genere. Il risultato è una pellicola densa di dialoghi, obiettivamente ben recitati da un ottimo cast (Colin Firth, Gary Oldman, John Hurt e Tom Hardy), come nel film di Clooney, ma insufficienti a creare, di concerto con la regia, un percorso visivo e narrativo interessante. L’eccesso di letterarietà, di fedeltà alla storia, coinvolge allo stesso modo, per certi versi, A Dangerous Method di David Cronenberg. Il regista negli ultimi tempi ha spostato il proprio sguardo dalle ossessioni per il corpo (si pensi alla produzione degli anni Ottanta e Novanta) ai meandri imperscrutabili della mente (da Spider in poi). L’incontro/scontro teorico ed umano tra Carl Gustav Jung (Michael Fassbender) e Sigmund Freud (Viggo Mortensen), animato dall’inquieta paziente Sabine (Keira Knightley), poteva essere materiale potenzialmente esplosivo, filtrato dalla poetica di un cineasta come Cronenberg. Ciò avviene purtroppo solo a livello superficiale, con l’attenzione diretta sui fatti e gli eventi e il conseguente depotenziamento della fredda visionarietà dell’estetica cronenberghiana. Ed è ridimensionata anche la presenza dell’ormai attore feticcio Mortensen, costretto nei panni di un Freud esageratamente inamidato. Molto più riuscita la performance di Fassbender, che ha costruito un personaggio denso di sfumature, ricco di contrasti, in bilico tra fragilità e controllo. Fassbender si conferma uno degli interpreti più duttili ed interessanti dell’olimpo hollywoodiano contemporaneo.

L’attore è presente anche nell’opera seconda del videoartista Steve McQueen, Shame, una delle pellicole più intense e riuscite presenti in concorso e grazie alla quale si è aggiudicato la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile. McQueen prosegue un discorso poetico/politico fondato sulla distorsione del concetto di corporeità iniziato in Hunger, con un Fassbender già protagonista assoluto. Nelle immagini del regista il corpo è il campo di battaglia perfetto per esprimere tutta la tensione e l’angoscia del solipsismo urbano occidentale. Il cineasta ha creato un congegno filmico quasi perfetto nel quale musica, immagini, sceneggiatura e recitazione si integrano magistralmente nel presentare una figura alla deriva, fratturata interiormente. La storia, estrema, che narra la discesa negli abissi della sex addiction di un giovane newyorkese benestante qualunque, diviene allora una sorta di metafora della condizione dell’uomo contemporaneo, abbandonato a se stesso nel caos ordinato delle grandi città. L’anestesia emotiva dell’uomo è anche al centro del durissimo Alpis di Yorgos Lanthimos: una sorta di agenzia autorganizzata è composta di persone che si propongono per recitare il ruolo dei defunti all’interno di famiglie che hanno appena subito un lutto. Lenire il vuoto lasciato da un morto significa quindi anestetizzare la reazione del tutto umana legata all’elaborazione della morte, dell’assenza senza possibilità di ritorno. Una regia algida accompagna una delle storie più convincenti del festival (Osella per la miglior sceneggiatura), un racconto astratto e teso, asciutto e fortemente drammatico. Ed è un’altra metafora sulla condizione dell’uomo contemporaneo, incarnata da un giovane ricercatore universitario che scopre i piaceri del voyeurismo autocondannandosi all’inazione, il meno riuscito Exchange dell’israeliano Eran Kolirin; l’argomento rimane solo potenziale, con scelte registiche poco interessanti ed una sceneggiatura che non decolla mai davvero. Anche Dark Horse di Todd Solondz, a suo modo e sicuramente meglio, porta sullo schermo una storia di solitudine, arricchendo il suo universo poetico, cinico e politically uncorrect, con una commedia amarissima, cesellata sulle performance di attori straordinari come Jordan Gelber, nei panni sgargianti di Abe, un trentenne con la sindrome di Peter Pan che fatica a distaccarsi dai genitori, interpretati dai superlativi Christopher Walken e Mia Farrow.

Oltre a Shame, Alpis e Dark Horse i maggiori vertici festivalieri sono stati raggiunti grazie ad autori noti che non hanno deluso le aspettative. Faust di Aleksandr Sokurov (Leone d’Oro), liberamente ispirato all’opera di Johann Wolfgang Goethe, va a chiudere con un personaggio letterario la tetralogia del potere del cineasta russo (dopo Moloch, Taurus e Il sole) ed è forse l’apice del cinema puro, in una mostra che si voglia definire d’arte cinematografica. Il rigore stilistico, la cura maniacale per ogni dettaglio scenografico, i costumi e la regia ricercati, sostenuti da una fotografia cupa e pittorica, l’attenzione alla grana dell’immagine portata fino alla sua deformazione, producono una pellicola densa, gioia per gli occhi di ogni cinefilo, opera totale e totalizzante che rasenta la perfezione (forse fin troppo). La mente di Faust è sedotta da Mefistofele e il suo corpo si corrompe nello spazio chiuso e organico organizzato da Sokurov.

Lo spazio chiuso è il protagonista di altri due film, girati da grandi autori che hanno realizzato due opere lontane per riuscita e tematica. Roman Polanski ritorna in grande stile alle proprie ossessioni claustrofobiche, leitmotiv sin dagli esordi (Il coltello nell’acqua, Repulsion e L’inquilino del terzo piano, solo per citarne alcuni). L’unità di tempo, luogo e azione gli permettono di costruire una commedia amara, sfruttando la maestria di quattro grandi interpreti (Kate Winslet, Jodie Foster, John C. Reilly e Christoph Waltz) che interpretano due coppie borghesi, alle prese con le buone maniere per superare un litigio tra i rispettivi figli. Carnage, la carneficina che corrode la patina del perbenismo, si tiene nei pochi metri quadrati di un appartamento newyorkese, dove l’ipocrisia dei rapporti umani si manifesta in maniera dirompente e a tratti esilarante, facendo riemergere la maestria registica di Polanski, affievolitasi negli ultimi anni (Oliver Twist e L’uomo nell’ombra). C’è un appartamento e c’è New York anche in 4:44 Last Day on Earth di Abel Ferrara, che rinchiude i suoi protagonisti in un loft ad aspettare con rassegnazione la fine del mondo, quasi in tempo reale, anche se la storia non riesce mai a raggiungere la sensazione di angoscia che si vorrebbe o potrebbe associare alla drammaticità legata al tema escatologico. La performance straordinaria di Willem Defoe divora quella incerta della co-protagonista femminile (Shanyn Leigh), contribuendo all’irrisolutezza complessiva del film. Irrisolta, per altri motivi, si è rivelata una delle opere seconde più attese, Poulet aux Prunes di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud, già autori del film d’animazione Persepolis, cult del 2007. I registi, al lavoro con attori in carne ed ossa, non sono riusciti a rielaborare con efficacia le origini fumettistiche della storia (una graphic novel della stessa Satrapi). Il film risolve allora la costruzione narrativa strizzando l’occhio a Il favoloso mondo di Amélie (Jean-Pierre Jeunet, 2001), ma risulta ancor più stucchevole per l’alto tasso di buoni sentimenti esibito costantemente. La cinematografia francese esce ammaccata da quest’edizione del festival, a maggior ragione e alla luce del pessimo Un été brûlant di Philippe Garrel, dramma intimistico ed autocompiaciuto interpretato da un Louis Garrel totalmente fuori ruolo e una Monica Bellucci, che, ancora una volta, si mostra in tutta la sua bellezza fotogenica, ma con tutti i suoi limiti attoriali.

La periferia americana è invece la protagonista di Killer Joe di William Friedkin e Texas Killing Fields di Ami Canaan Mann. Friedkin ha costruito un film dagli echi tarantiniani con incursioni pulp, affidando agli attori e alla freddezza del volto di Matthew McConaughey la capacità di potenziare la storia. La giovane Mann sembra avere solo il cognome del padre Michael: saper lavorare sull’immagine e creare un ingranaggio filmico ad alta tensione non sembra essere una qualità ereditaria. La giovane regista appiattisce la storia e le immagini sulla medietà stilistica di un telefilm poliziesco Usa qualunque, nonostante la presenza dell’intensa Jessica Chastain, apprezzata in A Tree of Life di Terrence Malick e qui limitata da una sceneggiatura banale. Ha invece stupito lo sguardo femminile dell’autrice inglese Andrea Arnold, con il suo Wuthering Heights, tratto da Cime Tempestose di Emily Brontë. Arnold, pur scegliendo di mantenere la contestualizzazione storica del romanzo, è stata capace di realizzare un’opera profondamente contemporanea. La regista, con il ricorso alla camera a mano (utilizzata à la Dogma95) ha sporcato in modo realistico l’immagine (splendidamente fotografata da Robbie Ryan, Osella per il miglior contributo tecnico) e i corpi degli attori, mettendo in luce l’aspetto più animalesco e sanguigno dei personaggi, in un continuo interrogarsi sullo scontro tra Natura e Cultura

Come negli anni scorsi l’attenzione per il Far East del direttore Marco Müller si è tradotta con una presenza ben nutrita di autori provenienti dall’estremo Oriente. I migliori si sono rivelati essere Tao Jie (A Simple Life) dell’hong-kongese Ann Hui e Himizu del giapponese Sono Sion. La pellicola di Ann Hui sa raccontare con grazia una storia dura, caricando il dramma di Ah Tao (Deannie Yip, Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile) con rara levità. La donna lavora come domestica per Roger (Andy Lau); dopo un ictus si trasferisce in un ricovero per anziani, e sarà Roger a prendersi cura di lei. Anche le immagini sono lievi e la macchina da presa sfiora i personaggi, registrandone le emozioni con profonda umanità. Himizu è invece ispirato ad un manga ed è ambientato in un Giappone appena colpito dalla tragedia nucleare di Fukushima; in questo contesto è inserita la vita tormentata di Sumida, adolescente irrequieto abbandonato a se stesso e risucchiato nel baratro della violenza. Sono Sion, ricorrendo ad immagini che spesso sfruttano in modo surreale ed efficace i codici visivi del fumetto (non come nel film di Marjane Satrapi), ha costruito un dramma in crescendo, supportato dalle intense performance degli attori adolescenti, Shôta Sometani e Fumi Nikaidô, premiati a ragione con il Premio Mastroianni per gli attori emergenti.

People Mountain People Sea di Cai Shangjun, film a sorpresa e outsider cinese premiato dalla giuria con il Leone d’Argento, porta in scena una durissima storia di vendetta, resa ancor più aspra (e ostica) da un’asciuttezza stilistica eccessivamente distaccata. Per il secondo anno consecutivo il film sorpresa è stata un’opera proveniente dall’Oriente, in linea ancora una volta con le passioni del direttore della Mostra. L’autore ha utilizzato come set anche una miniera illegale cinese; per questo motivo ha dovuto rimontare più volte il film per superare il visto della censura in patria. Saideke Balai di Te-Sheng Wei, altro orientale in competizione, è invece un kolossal epico che narra eventi storici legati all’invasione giapponese di Taiwan e alla resistenza tribale delle popolazioni autoctone. Pellicola di genere piuttosto modesta, è stata probabilmente inserita in concorso grazie alla co-produzione di John Woo (Leone d’oro alla carriera dello scorso anno). Modesto è anche il risultato di Jonnie To che con Life Without Principle ha cercato di emanciparsi dall’action movie, proponendo una specie di thriller finanziario macchinoso e senza pathos.

Il cinema italiano, infine, nonostante il riconoscimento conferito dalla giuria a Terraferma di Emanuele Crialese (Gran Premio della Giuria), si è mostrato in tutte le sue criticità, inghiottito dalle altre cinematografie nazionali presenti in concorso. Crialese ha caricato lo schermo di autocompiacimento e di immagini estetizzanti perdendo il punto di vista sulla storia e l’occasione di approfondire il soggetto. Il dramma dei migranti su un’isola che assomiglia a Lampedusa rimane in superficie, restituendo una visione piuttosto patinata della realtà. L’ultimo terrestre di Gian Alfonso Pacinotti, Gipi, pecca forse d’ingenuità. Da un’opera prima di un fumettista ci si sarebbe aspettati almeno una buona ricerca visiva, una maggiore visionarietà. L’arrivo degli alieni sulla Terra di Gipi ha invece ben poco di originale. Ne risulta un prodotto garbato e gradevole, ma infarcito di cliché e macchiette. Quando la notte di Cristina Comencini riassume tutte le frizioni e le problematicità delle pellicole italiane in concorso, che appaiono ormai incapaci di emanciparsi dall’estetica della fiction all’italiana. La regista racconta la storia di una madre, Marina (Claudia Pandolfi), alle prese con l’inadeguatezza legata al proprio ruolo. La burbera guida alpina Manfred (Filippo Timi) toccherà il cuore della donna. La sceneggiatura, piuttosto scontata, non aiuta di certo il lavoro degli attori, che appaiono sperduti, senza una direzione, abbandonati alla banalità della narrazione. Il cinema italiano contemporaneo sembra ormai essersi accomodato a livello estetico, narrativo e recitativo, sugli elementari meccanismi della finzione televisiva, faticando ad affrancarsi dal provincialismo che attanaglia la produzione nazionale media degli ultimi anni. La 68a edizione della Mostra è stata l’ultima curata da Marco Müller ed ora ci si interroga sul futuro del festival, sulla nuova direzione e sulle nuove traiettorie che potrà intraprendere. Resta solo una speranza: che la pre-apertura del festival, quest’anno riservata a Box Office 3D di Ezio Greggio, non fosse una sorta di oscuro presagio su ciò che verrà.

 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.