Dopo due blockbuster e un crossover, cosa poteva evitare ad Iron Man 3 di apparire come l’ennesima minestra riscaldata di gran lusso? Vedere una ventina di Iron Men combattere in contemporanea sullo schermo, ecco cosa. Ah, e pure il cattivo sputa fuoco mi è parsa una bella trovata. Per non parlare di War Machine. Ma andiamo per ordine.
In quell’immenso calderone che è la saga marvelliana nota come Marvel Cinematic Universe, molto ha bollito in questi ultimi anni: Iron Man, Thor, l’Incredibile Hulk, Captain America, il tutto per assemblare il supereroico team di The Avengers. Così facendo, le sceneggiature si sono intrecciate, senza ingarbugliarsi: i singoli hanno avuto il loro momento di gloria, per poi trionfare in squadra. Ed è proprio da The Avengers che un tormentato (per quanto possibile) Tony Stark (Robert Downey Jr.) riparte alla ricerca di sé: dopo l’arrivo degli alieni e il trauma del wormhole, Tony sembra tutto fuorché un uomo d’acciaio. Ossessivo, ansioso, come affetto da disturbo post traumatico, passa molto più tempo nel suo bunker a costruire armature che ad occuparsi della relazione con Pepper Potts (Gwyneth Paltrow) o delle sue Stark Industries. Sarebbe un bello spunto per approfondire i demoni che da sempre attanagliano l’animo dei supereroi, quel classico conflitto esistenziale che in The Amazing Spiderman tornava costantemente a galla, ma la produzione non ha troppi grilli per la testa e sa bene cosa il pubblico si aspetta da questo genere di film: di sicuro non un dramma introspettivo, quanto piuttosto una buona dose di suspense e tante esplosioni. Uscire dai binari sarebbe troppo rischioso, eppure Shane Black (alla regia dopo il no di Jon Favreau) qualche rischio lo prende: l’ironia che pervade la pellicola è un po’ la stessa di Arma letale e L’ultimo Boy Scout (probabilmente i suoi lavori più noti), per non parlare della rivincita dei ruoli femminili, suggerita a gran voce dallo stesso Downey Jr: non soltanto Pepper smette di essere un personaggio secondario, ma persino tra i cattivi ritroviamo una tinta di rosa. E’ infatti Rebecca Hall ad interpretare l’ambigua esperta in botanica Maya Hansen, a capo del progetto Extremis, insieme all’ affascinante chimico Aldrich Killian (Guy Pearce). Dulcis in fundo, l’improbabile neo Bin Laden noto come Il Mandarino (aka il premio Oscar Ben Kingsley) è al centro del più grande colpo di scena della pellicola.
Tuttavia è Robert Downey Jr. a primeggiare nel ruolo che lo ha definitivamente consacrato dopo anni di letargo, al punto che il destino della saga potrebbe essere nelle sue mani: dopo i titoli di coda vi è ancora spazio per uno spoiler (o una minaccia?), "Tony Stark will return", ma la Marvel ha confermato che un quarto e un quinto episodio sono già in canna, indipendentemente dall’ingaggio dell’attore. Difficile pensare che senza di lui i botteghini possano essere ancora così generosi. Certo è che la sceneggiatura di Iron Man 3 (scritta a quattro mani con Drew Pearce) fa di tutto pur di chiudere il cerchio: Casa Stark si abissa nell’Oceano, Tony si priva della scheggia che lo rende vulnerabile (al che verrebbe da dire: se era una faccenda così semplice, perché non risolverla prima?) e distrugge tutti gli esoscheletri a cui ha a lungo lavorato (tranne ovviamente War Machine/The Iron Patriot, egregiamente incarnato da Done Cheadle, il quale non esclude il suo coinvolgimento in The Avengers 2 - probabile uscita nel 2015). E’ questa dunque la fine di un ciclo? Probabilmente no, visto che lo stesso Stark in chiusura ricorda che anche senza i suoi giocattoli, lui è, e sempre rimarrà, Iron Man, strizzando l’occhio, tra l’altro, alla conclusione del primo film della trilogia. Ed è forse su questo che l’opera mette l’accento più forte e trova il suo spunto migliore: la gente pare volere ormai più umanità e meno eroismo. Più ingegno e meno tecnologia. Più Stark e meno Iron Man.
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