Simon Konianski PDF 
Elisa Mandelli   

Divertente road movie dal sapore yiddish, il secondo lungometraggio del regista belga Micha Wald racconta la storia di Simon, trentacinquenne pigro e immaturo, di recente lasciato dalla moglie e costretto a tornare, con gran disappunto da entrambe le parti, sotto il tetto paterno. Inevitabile il conflitto tra generazioni, inevitabile il sentirsi rinfacciare insistentemente la necessità di crescere, inevitabile trovarsi di nuovo a fare i conti con il retaggio di tradizioni e usanze ebraiche che, subite come un’insopportabile tortura durante l’infanzia, il giovane aveva poi rinnegato con tutte le sue forze (arrivando a sposare una ballerina goy, non ebrea, e, scandalo degli scandali, a non circoncidere il figlio). Quando il padre muore Simon decide tuttavia, per rispettare le sue ultime volontà, di intraprendere un viaggio verso l’Ucraina, dove l’anziano desiderava essere seppellito per ricongiungersi con un vecchio amore. Con due petulanti zii, il figlioletto “prelevato” senza il consenso della madre, un cadavere nel bagagliaio e lo spirito del padre che si manifesta di quando in quando, il protagonista intraprende un viaggio che è insieme di esplorazione (di un mondo del tutto estraneo, ma anche di una parte del vissuto del genitore che ancora ignorava) e di ritorno (alle origini della propria famiglia, e dunque delle proprie).

Con echi cinematografici che vanno da Little Miss Sunshine al Liev Schreiber di Ogni cosa è illuminata, passando per i Cohen, Wes Anderson e, naturalmente, Woody Allen, Wald riprende e ripropone, con garbo e rispettosa ironia, i tratti fondamentali della cultura ebraica (e della sua rappresentazione cinematografica): il rapporto con il passato e con gli orrori che porta con sé, lo spirito conservatore e il viscerale attaccamento alla tradizione, la proverbiale avarizia (fulminante la gag del padre che ricicla le bustine di the), la capacità di guardare con humour anche ai risvolti più tragici del proprio vissuto. Se il film non smette mai di divertire, in esso si mescolano indissolubilmente alto e basso, tragico e comico, un profondo e doloroso rispetto e una dissacrante (auto)ironia. Così dietro la comicità del padre Ernest (interpretato da Popek, celebre attore e mimo) e dello zio Maurice, ossessionati l’uno dai kapò nazisti, l’altro dagli agenti della Stasi, traspare senza retorica o patetismi il risvolto più doloroso di un passato che non può essere dimenticato e che costituisce un’indelebile ferita non solo morale, ma propriamente fisica (al punto che Ernest si ammala e muore a causa del freddo patito da giovane nei campi di concentramento).

Simon Konianski si inscrive dunque pienamente in un più ampio discorso identitario, culturale e cinematografico, ma nello stesso tempo il regista prosegue un percorso di riflessione del tutto personale, di cui si trova già traccia nel bellissimo corto Alice et moi (2004), il quale anticipa, condensati in venti minuti, molti dei motivi che sostanziano il lungometraggio. Wald non esita a rifare se stesso, riprendendo dal precedente lavoro non solo temi, situazioni e fisionomia dei personaggi, ma addirittura gag, battute e soluzioni di inquadratura e messa in scena, per arricchirli poi di echi e riferimenti più vasti. Il risultato è un’indagine che coniuga una molteplicità di fonti ed ascendenze ad un’esplorazione soggettiva della propria identità e dell’eredità culturale che ne fa parte, così come del rapporto con l’altro, con ciò che si colloca al di fuori della ristretta ed esclusiva sfera del mondo ebraico. Una materia apparentemente eccessiva, troppo ricca, che rischia di sfuggire di mano, su cui però Wald agisce per sottrazione, assottigliando e semplificando fino a trovare un’essenzialità di tocco che, se di quando in quando sfiora la stilizzazione, riesce a non cadere mai a picco nella superficialità. Tutto è chiaro, immediatamente comprensibile per lo spettatore, tanto nello sviluppo del racconto e nella caratterizzazione dei personaggi quanto nella messa in scena e nelle scelte formali. La trama si sviluppa lineare, spedita e decisa, senza perdersi in sentieri secondari, con un sottile filo rosso che attraversa costantemente una serie di scene per altri versi dotate di forte autonomia. Un filo rosso che altro non è che il tema del viaggio, tratto peculiare di quel genere road movie in cui film si inscrive appieno, anche nell’affiancare al movimento esteriore un percorso di crescita interiore.

Così se la prima parte di Simon Konianski è essenzialmente statica, ambientata tra la casa del padre ed altri ambienti interni, il motivo dello spostamento la attraversa e la sostanzia già intimamente. Il film si apre infatti con un tragitto in auto, quello con cui Simon passa dal tetto coniugale alla casa paterna: il protagonista incarna fin dall’inizio, suo malgrado, la figura dell’ebreo errante, costantemente in movimento, costretto a spostarsi da un luogo all’altro alla ricerca di un (impossibile) radicamento. Quando poi comincia il viaggio vero e proprio, esso si configura come un progressivo ingresso nel mondo ebraico, cui tappa fondamentale è quella nel campo di concentramento (sicuramente uno dei momenti più alti del film): il luogo viene spogliato di qualsiasi orpello e dell’iconografia classica restano solo i capannoni e il filo spinato, ad evitare qualsiasi indugio compiaciuto sulla tragedia e a restituire pienamente quel senso di vuoto che essa ha lasciato dietro di sé. Dunque il cammino di Simon non inizia, quanto piuttosto riprende dopo la morte del padre, e sembra non terminare neanche nel finale: quell’aereo che parte senza di lui ci dice in fondo che il suo viaggio non è ancora finito e che per lui non sarà così facile tornare, semplicemente, indietro.

In questo processo di riduzione, quasi di rarefazione della materia narrativa, si dà immediatamente alla vista anche il carattere dei personaggi, che si cristallizza tutto nella loro apparenza fisica. Prendiamo Simon: gli occhiali enormi gli conferiscono l’aria di eterno bambino e sembrano impedirgli di mettere a fuoco piuttosto che aiutarlo a vedere meglio; quel collarino che fatica ad abbandonare è emblema della sua ipocondria, ma soprattutto del suo bisogno di sostegno; la felpa con scritto “Bagdad” ne denuncia la perenne rivolta verso l’ebraismo; l’auto sgangherata, che finisce in panne, funge quasi da correlativo oggettivo della sua situazione emotiva. Accanto a lui l’immancabile famiglia invadente e rumorosa (si pensi alla cacofonia che si crea nella spassosa scena del pranzo coi parenti) è rappresentata con un’ironia pungente che cela però un più profondo senso di umana comprensione. In linea con il miglior spirito ebraico, Wald riesce dunque ad ottenere una straordinaria compresenza di toni, e attraverso di essa a condurre una riflessione che dietro all’andamento leggero e gradevole sa essere estremamente seria, facendoci partecipi di un discorso forse a tratti un po’ confuso ma che rimane sempre (ed è l’importante) intimamente sincero e autentico.

TITOLO ORIGINALE: Simon Konianski; REGIA: Micha Wald; SCENEGGIATURA: Micha Wald; FOTOGRAFIA: Jean-Paul de Zaetijd; MONTAGGIO: Susana Rossberg; MUSICA: Claude Lahaye; PRODUZIONE: Francia/Canada/Belgio; ANNO: 2009; DURATA: 100 min.

 


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