Un caso di ordinaria, vergognosa distribuzione: Ribelli per caso di Vincenzo Terracciano PDF 
di Francesco Improta   

Non sono un critico cinematografico né un addetto ai lavori e probabilmente certi meccanismi mi sfuggono, ma ho trascorso, dal 1948 ad oggi, la maggior parte del mio tempo libero a cinema, riempiendomi gli occhi d'immagini ed il cuore d'emozioni, e ciò mi autorizza a chiedere, nella speranza di avere una risposta da qualcuno più informato ed autorevole di me, perché i film di giovani registi, a dispetto del loro valore intrinseco, siano tanto penalizzati da una distribuzione miope ed insensibile.

Penso a Vincenzo Terracciano, il cui primo film Per tutto il tempo che ci resta (1998) è stato tolto dalla circolazione dopo neanche due settimane di programmazione in pochissime città italiane, per apparire fugacemente in televisione, due mesi fa, in una fascia oraria decisamente infelice (23,45), perché inibita e a quanti, per motivi di lavoro o in ossequio ai principi di una fin troppo strombazzata sanità di vita, sono già nelle braccia di Morfeo e ai sonnambuli impenitenti che a quell'ora non hanno ancora ritrovato la strada di casa. Anche il secondo lungometraggio di Terracciano Ribelli per caso, uscito il 14 Dicembre 2001, non ha avuto migliore distribuzione; proiettato solo in pochissime città (Napoli, Roma, Milano, Firenze, Bologna; Bari e Catania), nonostante i consensi unanimi di critica e di pubblico, dopo poco più di un mese è stato "smontato", tolto dalla circolazione.

 

Eppure il film era nato sotto i migliori auspici; presentato a Stoccolma, nella rassegna di cinema italiano che si tiene ogni anno nella capitale svedese, ha suscitato l'entusiasmo degli spettatori ed ha ottenuto un convinto apprezzamento da parte di Gianni Amelio "È un film ben fatto – ha sottolineato il regista, appena le luci si sono riaccese in sala –, una commedia ironica e "cattiva", erede della nostra grande tradizione e lontana dal buonismo imperante. Terracciano riesce a guardare con ottimi risultati alla lezione di maestri scomodi come Ferreri e Buñuel. Gli auguro il successo che merita". Proiettato successivamente al festival di Villerupt in Francia ha ottenuto il premio della critica e quello del pubblico, per trionfare subito dopo al festival Nice di New York; giunto finalmente sugli schermi, insieme al favore del pubblico, ha avuto riconoscimenti e giudizi lusinghieri da parte dei più autorevoli critici italiani (Nepoti, Caprara, Lodoli etc.). Ha ottenuto, inoltre, il premio Charlot, nella suggestiva cornice di Paestum, il premio Comicittà, giunto all'ottava edizione e, recentemente, è risultato vincitore nella rassegna itinerante di cinema italiano in Germania, dove verrà distribuito in primavera. Visti i risultati, può nascere il dubbio che i critici citati e i giudici che hanno valutato il film abbiano preso un abbaglio o più probabilmente che le case di distribuzione seguano logiche e criteri spietatamente economici e che si disinteressino completamente della qualità dei film che distribuiscono. Anche in questo caso chiedo e attendo lumi.

Non sono così sprovveduto da non sapere che la censura "bianca", dettata esclusivamente da esigenze di botteghino, è sempre esistita, essa, però, nel passato riguardava soltanto i film cosiddetti impegnati o gli sperimentali duri, capaci di esaltare quell'esiguo drappello di spettatori che fanno della frequentazione cinematografica un esercizio di sadomasochismo intellettuale ma di mortificare platee più ampie, desiderose legittimamente di emozionarsi. In questo caso, invece, si toglie dalla circolazione un film che ha riscosso il consenso unanime della critica patentata e del pubblico più eterogeneo, e solo perché non si tratta di un Kolossal ricco d'effetti speciali e non è stato finanziato da capitali americani o dalle grandi multifinanziarie dello spettacolo. Ora, però, analizziamo più da vicino il film di Terracciano. Con questo secondo lungometraggio il regista napoletano non solo conferma quanto di buono aveva fatto vedere in "Per tutto il tempo che ci resta", ma va oltre dimostrando, in maniera inequivocabile, la sua padronanza del mezzo cinematografico e la non comune capacità di dirigere gli attori, inserendoli in una rappresentazione corale senza per questo privarli della loro individualità.

Il nuovo film di Terracciano, a dispetto del titolo, banale e certamente non nuovo (mi vengono in mente Turista per caso; Un eroe per caso, Omicida per caso ed altri ancora), in un panorama grigio ed uniforme –qual è quello del cinema attuale non solo italiano- è una piacevolissima sorpresa, un'interessante novità che lascia ben sperare sul futuro del nostro cinema, sempre che i produttori dimostrino maggior coraggio e siano disposti ad allentare i cordoni della borsa. Questa mia valutazione è confermata e confortata dal giudizio di Marco Lodoli che nel "Diario" del 17 Gennaio 2001 dice testualmente: "Il più interessante esordio italiano di questo periodo" ed aggiunge: "Un sussurro dietro al fracasso delle megaproduzioni, una foglia di basilico dietro i baobab…destinato a diventare un grande successo popolare"… se solo fosse visibile, aggiungo io. Il film è ambientato in un ospedale malandato nella periferia di Napoli, meglio ancora in una stanza di quest'ospedale (la 104), disadorna e sporca, dove, prima di solidarizzare definitivamente (emblematica, a tal proposito la scena in cui il "presunto" avvocato, Antonio Catania, offre un lembo della coperta a Ciro, il fruttivendolo, in quella specie di deposito dell'ospedale che diventa luogo di cospirazione e di riscatto) s'incontrano e si scontrano sei poveri diavoli, appartenenti a fasce sociali diverse, ma accomunati tutti dalla paura, dalla sofferenza, più morale che fisica, dall'angoscia della quotidianità, fatta di cibi precotti ed insapori, di atteggiamenti indifferenti o sgarbati da parte di un personale pressappochista e scarsamente qualificato e soprattutto dalla mancanza di risposte alle legittime e pressanti domande sulla loro condizione di salute. Tutto ciò potrebbe far pensare ad un film sulla malasanità ma non è così.

Come in Per tutto il tempo che ci resta la denuncia della difficoltà di amministrare la giustizia in Italia e della connivenza tra alcuni magistrati e la criminalità organizzata era marginale rispetto al tema dell'amicizia così il nuovo film di Terracciano poco o nulla concede alla cronaca di un sistema sanitario disastrato, proponendosi, fin dall'inizio, come un apologo, decisamente grottesco, sulla vita e sulla dignità dell'esistenza che appare sempre di più un'utopia in un mondo in cui tutto viene mercificato o, comunque, reificato.

Questi uomini della stanza 104, del tutto ignorati, considerati semplici cavie o, peggio ancora, sgabelli per arrampicarsi ai posti di potere (cattedre universitarie o direzione di ospedali), decidono, dopo un ulteriore episodio di violenza psicologica da parte del primario nei confronti del più docile e rassegnato dei degenti, il professore, Giovanni Esposito, di organizzare, in barba ai regolamenti e alle loro stesse condizioni di salute, una cena luculliana per protestare, per sentirsi vivi almeno una volta e per ritrovare, attraverso l'esercizio del cerimoniale che sovrintende qualsiasi "festa", il piacere di vivere. In realtà il gesto dei degenti assume ben altre valenze e significazioni, è un modo, e il più allegro possibile, di riappropriarsi delle proprie capacità decisionali, di tornare ad essere protagonisti, di poter scegliere, di recuperare una propria autonomia in un mondo dove siamo, quasi sempre, eterodiretti. Non è un caso che la decisione venga presa nel ripostiglio dell'ospedale, che con le sue sedie ammassate e sgangherate, le suppellettili logore e scrostate, le reti arrugginite diventa un luogo emblematico, denso di significati, una metafora non solo dell'ospedale ma della vita stessa, ed è in questo luogo che i malati, apparentemente in sintonia con l'ambiente, in quanto fantocci gettati in un angolo perché logori ed inutili, "congiurano contro il burattinaio" ed è sempre qui che Adriano, il più lucido di tutti, alla fine del film si scontrerà verbalmente con il primario in una resa dei conti alquanto didascalica ma di grande impatto emotivo.

 

Adriano, Antonio Catania, forse è il protagonista, sempre che in un film corale esista un protagonista, certamente è "il maestro di cerimonia" e, in ogni modo, il primo personaggio ad entrare in scena, ha lo sguardo fisso nel vuoto e sembra schiacciato dal peso delle preoccupazioni di una vita irrimediabilmente franata, vicino a lui la moglie, premurosa ma fredda, porta una valigia con alcuni effetti personali. E' questo il prologo di un viaggio senza ritorno, di un'odissea umana e sentimentale che lo porterà a fare i conti con se stesso, con ciò che era e con ciò che non era riuscito a diventare. Porta gelosamente chiuso in sé un segreto, del quale all'esterno non trapela alcun indizio, se non fosse per il volume Il cinema di Hollywood, che campeggia sul comodino accanto al suo letto e dietro al quale nasconde, isolandosi dagli altri compagni di sventura, tristezza, paura e rimpianti. Ancora giovanissimo, mentre prestava servizio come cameriere in un albergo di Sorrento, aveva conosciuto il leggendario John Ford, reso ancora più mitico dalla benda sull'occhio, ed era stato invitato ad Hollywood per intraprendere la carriera d'attore; in quella calda notte d'estate si erano schiusi per il giovane Adriano nuovi orizzonti ma egli non aveva mai avuto il coraggio d'inseguire i suoi sogni e si era limitato a vagheggiarli, a coltivarli con il rimpianto e la nostalgia, e quei sogni gli avevano fatto compagnia e gli avevano impedito, meglio ancora avevano attenuato molteplici delusioni.

Ribelli per caso, come abbiamo già anticipato, è un film corale e Adriano si muove in perfetta sintonia con gli altri personaggi, con i quali intreccia, su ritmi ora andanti ora allegri, una deliziosa pantomima fino alla notte del trambusto, quando l'azione assume i caratteri della danza buffa e grottesca. E' una pagina da antologia che rivela l'amore di Terracciano per lo spettacolo tout-court e la sua capacità autoriale –oserei dire anche se il termine non è di suo gradimento- nell'attraversare e rivisitare tutti i generi cinematografici dalla commedia al dramma, dalla satira al western, dalla denuncia sociale alla slapstik, in maniera originale ed efficace. Su tutto ciò l'ironia dell'autore e la bravura magistrale degli attori, qui più che mai sapientemente diretti. La scena inizia in punta di piedi, con i toni della cospirazione, sfiora la comicità nel dialogo tra il professore (Giovanni Esposito) ed un malato di un'altra stanza, al quale viene negato l'accesso in cucina, rasenta la tragedia quando Maria, l'infermiera, sta per scoprire tutto, devia verso la poesia nel bagno, dove il professore s'improvvisa seduttore e declama una poesia di Emily Dyckinson ad una Maria, incredula e arrendevole (Gea Martire) per poi decollare durante il pranzo vero e proprio, enfatizzato meglio ancora "santificato" da Franco Javarone che ad ogni boccone, letale per la sua salute, innalza peani ed espressioni paradisiache, "illuminandosi d'immenso".

Il momento, comunque, di "spannung", di massima tensione narrativa ed emotiva coincide con l'arrivo del commissario, uno straordinario Gianni Ferreri, in conflitto perenne con la moglie sul modo di educare e di curare i figli, e degli agenti che cercano di espugnare "la roccaforte" in cui sono rinchiusi a mangiare i malati, mentre il primario del reparto di gastroenterologia (Antonio Petrocelli) e il direttore della clinica (Venantino Venantini) si rinfacciano colpe e responsabilità ed una folla di malati si accalca nel corridoio, incuriosita, dapprima come semplice spettatrice e poi decisamente schierata in favore dei ribelli. I ritmi si fanno sempre più serrati, vertiginosi; la macchina da presa danza intorno ai personaggi, scivolando sui corpi, sui volti nel tentativo di cogliere gesti, espressioni, semplici contrazioni e riesce a catturare anche un momento di struggente tenerezza, quando il professore, più disarmato che mai, si avvicina alla porta, dietro la quale c'è Maria e bisbiglia, con un filo di voce, di essere stato sempre sincero; poi, mentre la tensione continua a lievitare fino a tracimare, i malati si scatenano in un mambo sfrenato che assume valore liberatorio e apotropaico.

A qualche critico che aveva ricordato La grande abbuffata lo stesso Terracciano aveva giustamente fatto notare che il film di Ferreri era una sinfonia di morte mentre Ribelli per caso è un inno alla vita, ma non bisogna dimenticare che il registro di fondo del film è il grottesco di cui appunto Ferreri è stato maestro insuperabile, senza contare che il tema del cibo è una costante nel cinema di Ferreri come in quello di Chabrol, regista altrettanto caro a Terracciano che si è formato sul cinema francese della nouvelle vague. La scena, comunque, della cena è più vicina a quella di Viridiana di Bunuel che a quella della Grande abbuffata. In conclusione, mi pare doveroso sottolineare la penuria di mezzi e di fondi con cui il film è stato girato, quasi tutto in interni e per di più in spazi ridottissimi, perciò far muovere la m.d.p. nei pur riuscitissimi piani-sequenza è stata un'impresa "epica" ed il merito è tutto del giovane Terracciano che dopo un'esperienza del genere credo che non possa spaventarsi più di nulla. Prima di concludere vorrei ricordare ciò che dice Lodoli nella sua bella recensione: "Come gli eroi malinconici di La grande abbuffata o quelli allegri di Full monty i malati della stanza 104 prendono il loro destino tra le mani e in nome della dignità organizzano una cena pantagruelica che è una sfida alla morte, alla rassegnazione" e, vorrei aggiungere, all'attesa passiva, mi viene in mente Attesa sul mare, la penultima fatica letteraria di uno dei maggiori scrittori della seconda metà del ventesimo secolo, Francesco Biamonti, scomparso prematuramente l'anno scorso. Nel romanzo di Biamonti, pubblicato da Einaudi nel 1994, Edoardo, capitano di lungo corso, in crisi con se stesso e il mondo intero, ingaggiato per portare in Bosnia un carico d'armi, perduto il contatto con la terra ferma ed abbandonato a se stesso, riesce a trovare la forza ed il coraggio dell'autodeterminazione, assumendosi ogni responsabilità e portando in salvo carico ed equipaggio nonché una ragazza che fuggiva dalla guerra, dalla miseria, da una morte probabile.

Nel film di Terracciano i degenti, con la sola esclusione del professore, vanno incontro probabilmente ad una morte sicura ma riescono a salvare la propria dignità, ribellandosi ad una sorte meschina ed ingrata. Vale la pena ricordare che il ballo conclusivo, cui partecipano quasi tutti i ricoverati, almeno quelli che rientrano nell'inquadratura, ripresa in totale (bellissimo il movimento in avanti della m.d.p. che finisce con l'inghiottire tutti i personaggi che incontra e successivamente va a prelevare, quasi materialmente, il primario da una stanza e lo trascina, con un carrello a precedere, dinanzi all'ormai famigerata stanza 104), è completamente diverso dal mambo precedente ed acquista un sapore consolatorio, serve a "snellire" l'azione ed il pathos, dopo che le diagnosi si sono rivelate, nella stragrande maggioranza dei casi, vere e proprie condanne, e rappresenta anche un barlume di speranza. Questi uomini hanno lottato perché "la malattia –come dice Adriano- abbia finalmente un senso e non solo un decorso", non è un caso che, sulle note di una popolare canzone (Let me the last dance), tutto sembri alleggerirsi e la scena, in prevalenza buia, diventi più luminosa.

 


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