TOFIFE 2007/Intorno a John Cassavetes... PDF 
Giampiero Frasca   

Discutere ancora del cinema di Cassavetes è probabilmente questione oziosa. Non inutile, ma improduttiva. Difficile trovare spiragli di riflessione praticabili dopo che nel corso degli anni le accurate monografie di Thierry Jousse, Sergio Arecco, Raymond Carney, Laurence Gavron, Denis Lenoir e, last but not least, Jim Healy ed Emanuela Martini hanno esaurito il campionario di analisi possibile. Meglio allora farsi cullare dalle suggestioni di un cinema in qualche modo ipnotico per scelta stilistica, seducente per il respiro esistenziale adottato, immortale per la materia trattata. Nessun tentativo di esplorazione. Nessuna ipotesi interpretativa. Nessuna pedanteria riassuntiva. Solo alcune note a margine della retrospettiva organizzata dal 25° Torino Film Festival come doveroso omaggio ad un marginale per vocazione, che ha caratterizzato, estraniandosene, un periodo importante della storia del cinema, contribuendo a crearla nelle sue varianti più fascinosamente periferiche. Semplicemente tre istantanee, tre momenti. Forse nemmeno dei più rappresentativi su un rigoroso piano antologico, ma in cui, passionalmente, si respira l’anima di un cinema che ha colore, calore, corpo. In tutti i sensi.

ImagePrima istantanea: superfici solitarie in un interno chiaroscuro (da Shadows)
Interno di un’abitazione newyorchese. Lelia, la giovane padrona di casa, è in compagnia di Tony, sua nuova fiamma. Improvvisamente sopraggiungono, non attesi, Hugh, il fratello cantante della ragazza, e Rupert, il suo agente. Lelia li presenta a Tony. Attimo di imbarazzo, poi forse anche di paura: Tony non sospettava che la sua ragazza potesse avere un fratello di colore. Il suo volto si vela di una patina di disagio, lo sguardo si abbassa. Cerca una via di fuga possibile, tra le proteste sconsolate di Lelia e il fastidio crescente di Hugh. Le iniziali inquadrature d’insieme si frantumano in una serie di primissimi piani che colgono ogni più piccola sfumatura sul volto dei protagonisti. L’azione si ferma, la dominante volumetrica dei volti è un febbrile quanto tacito scambio di accuse che segna non solo il termine di un rapporto, ma anche il pensiero pregiudizievole di una società schiavizzata dalle convenzioni e dalle sue paure interne. Da una determinata prospettiva, Cassavetes mostra il suo debito alla formazione televisiva: piani ampi in un interno, illuminazione diffusa, carattere domestico, rottura della linearità con l’inserzione di primissimi piani in funzione drammatica, espressività derivata dai volti, ma anche dalle condizioni luministiche privilegiate dal tipo di inquadratura ristretta. A livello della storia è l’inizio di una crisi che affonda, antropologicamente, le sue radici in secoli di timori più o meno confessati. Sul piano estetico, invece, quei volti in bianco e nero sono distese sofferenti oppresse dall’incapacità di oltrepassare il loro isolamento nello spazio.

ImageSeconda istantanea: il dado è tratto ma nessuno lo sa (da Husbands)
Tavolo verde di un casinò londinese. Tre uomini si gettano avidamente su un paio di dadi. Harry, Archie e Gus, ebbri di una felicità fugace derivata dalla loro recente e coattiva libertà, si alternano al lancio. Uno, due, tre. Speranza, attesa, delusione. Nuova speranza, stessa attesa, ulteriore delusione. Fino a quella definitiva: hanno perso tutti i loro soldi. Lo spettatore partecipa della speranza, vive trepidante la celere attesa, storce il labbro alle conseguenti delusioni. Fossimo ad Hollywood si opterebbe per un logico rapporto di causa ed effetto: inquadratura dei lanciatori, inquadratura susseguente sull’esito del lancio. Ma qua siamo a casa Cassavetes, per l’occasione trasmigrata a Londra. Il lancio c’è, ma l’esito non si vede. Speranza, attesa e delusione sono superfici pittoriche che si realizzano esclusivamente sull’espressione e sulle reazioni dei volti di Harry, Archie e Gus. Non c’è consequenzialità e anche l’ipotesi fenomenologica è in qualche modo compressa, visto che esiste la tensione verso l’oggetto, ma è assente l’esito di tale tensione. Siamo nei territori del behaviorismo. Ciò che interessa è l’uomo. Nient’altro. Nel 1957, ospite della trasmissione radiofonica “Night People” di Jean Sheperd, in cui avrebbe dovuto presentare come attore Nel fango della periferia di Martin Ritt, Cassavetes si lancia nella perorazione della sua personale causa, chiedendo direttamente agli ascoltatori aiuti finanziari da azionariato popolare nel caso in cui avessero voluto vedere finalmente "un film su gente autentica". È il preludio a Shadows. È un atto d’amore incondizionato verso le figure dei suoi film, persone e non personaggi. È anche la dimostrazione di una coerenza che non lo ha più abbandonato nel corso di una quasi trentennale carriera.

ImageTerza istantanea: l’emarginazione del centro (da The Killing of a Chinese Bookie)
Un tavolo in una sala da gioco. Cosmo Vitelli, impresario di un night club con il vizio dell’azzardo, ha perso la sua ennesima partita. Gli altri giocatori reclamano la sua puntata. Ma Cosmo non ha il denaro per farla. Si rivolge ad un valletto, chiedendo di chiamargli il direttore. Il direttore arriva. Cosmo gli chiede la possibilità di un credito, la sua testa è tagliata in due dal margine inferiore dell’inquadratura e lo rende praticamente invisibile. Il centro del piano è tutto del direttore che ascolta, in piedi, le ragioni di Cosmo prima di opporgli un deciso rifiuto. Differente inquadratura a seguire: il volto di Cosmo è coperto dalla nuca in primo piano di un altro giocatore seduto al tavolo, il centro del piano è tutto di Rachel, la sua sinuosa fidanzata d’ebano, che scruta il direttore fuoricampo mostrando un volto dubbioso, incerto su ciò che succederà di lì a poco. È un punto di svolta, forse addirittura quello di non ritorno: Cosmo ha perso 23.000 dollari e il suo debito è affare della mafia della West Coast. Cosmo, illuso di essere centro di controllo della situazione, è escluso prima dalla disponibilità del capitale e dalle sue impietose esigenze, poi sostituito nella lettura di una circostanza che ormai non può più gestire da Rachel, la quale, non a caso, giunti laddove il gioco è diventato troppo rischioso, deciderà di lasciare, di ritirarsi, abbandonando Cosmo al suo destino. Nonostante l’interesse quasi esclusivo per gli attori e per la loro capacità di improvvisazione e la propagandata avversione per la tecnica, il linguaggio e i suoi accorgimenti, Cassavetes mostra di non ignorare le scelte di messa in scena e il significato delle inquadrature. È un’ambivalenza di fondo, ma è un segno ulteriore della ricchezza di un cinema che sfrutta la verità effettiva per universalizzare i suoi contenuti rendendoli indimenticabili.

 


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