Speciale NUOVO CINEMA GIAPPONESE - Esterofilia e rapporti di devianza sociale PDF 
di Fabio Rainelli   

Durante tutto l'arco degli Anni Novanta, il cinema ha visto nascere e ha sviluppato nuove correnti legate ad un tipo di produzione indipendente, spietata, violenta, che mostra storie di personaggi solitari, estremi ed abilissimi nel condurre durissime lotte contro avversari altrettanto crudeli. Si assiste ad un rovesciamento dei classici ruoli di buono e cattivo, con una costante presenza di personaggi che, con il loro agire cruento, in qualche modo si emarginano dal sistema. È di queste eccezioni del Giappone che vale la pena di discutere, cioè di quei registi e produttori che non hanno pagato alcun tributo al cinema americano [la vera pecca per il cinema horror e d'azione di Hong Kong e Giappone negli anni '80] e che, liberi di spaziare in questo marasma filmico, hanno forgiato qualcosa di nuovo. Questi cineasti hanno creato, quindi, un mondo differente, una visione [distorta] della società e dell'esistenza all'interno di essa [e il vivere all'interno della realtà giapponese, con tutte le sue assurde contraddizioni, non può che essere stato d'aiuto]. In particolare, il lavoro di Miike Takashi è da prendere ad esempio per il suo modo di dirigere e di rapportarsi col mercato totalmente fuori dagli schemi. Il numero dei suoi film ha raggiunto cifre ragguardevoli [una media di tre, quattro all'anno!]. Il suo lavoro è rivolto sia al mercato video degli O.V. [original video, girati e prodotti esclusivamente per un mercato home video, i quali offrono buone opportunità per un regista agli esordi] sia a quello delle sale. Il suo insistente riferimento a culture di paesi limitrofi, la sua particolare predisposizione a scioccare lo spettatore con immagini forti, spesso eccessive e caotiche, la presenza di personaggi in costante fuga da se stessi oltre che dal mondo che li circonda, riflettono un'immagine di cinema che non vuole appartenere a nulla, a nessuno, emblema della grande libertà che si è guadagnato il Miike cineasta. Inoltre, i personaggi molte volte non rappresentano esattamente quello che lo spettatore è abituato a vedere, anche nei film più violenti: in Fudo [Gokudo Sengokushi, 1996], ad esempio, troviamo dei bambini impegnati in una spietata lotta contro degli anziani capi mafiosi e coinvolti in esercitazioni per fronteggiare l'avversario di turno.

Il regista vede i bambini come persone senza formazione o antecedenti culturali, senza un'educazione. La loro forza sta nel non aver ancora acquisito i valori del vivere sociale e nel possedere solo tanta energia: è per questo che hanno la possibilità di compiere qualsiasi azione e di trovarsi alle prese con qualsivoglia situazione. Miike ha trovato un'oasi felice nell'immoralità, nel mostrare bambini sicari, corpi umani flagellati, personaggi dall'indefinibile identità sessuale come estrema rappresentazione dell'ambigua e mutante natura del corpo [la ragazza Mika di Fudo che possiede organi genitali maschili e femminili]. Nel suo cinema, però, il corpo rimane amorfo, in modo da permettere alla macchina di entrarvi, di uscirvi e di trovarvi nuove soluzioni d'immagine.

Tutto ciò comunque può essere considerato valido non solo per i corpi umani, ma anche per il resto. Ogni elemento viene mutato in immagine, con un ampio uso di espedienti che rivelano, oltre al piacere di fare cinema, un atteggiamento decisamente cinico. Le numerose inquadrature soggettive tra i personaggi, la non visibilità di alcuni di essi [D.O.A.- Dead or Alive, 1999], la mancanza di una prospettiva dominante, l'attribuzione di 'soggettive impossibili' a proiettili [Fudo] o l'introduzione di oggettive irreali agli organi genitali [l'assurda inquadratura dall'interno della vagina di Anita in Mafia cinese in Giappone [Nihon Kuroshakai Ley Lines, 1999]] evidenziano la rappresentazione con i medesimi espedienti di persone e oggetti.

 

L'uomo appare spesso manipolato dall'immagine filmica come un pupazzo in balia della cinepresa [D.O.A.]. Nelle sequenze finali di Audition [id., 1999], quando il protagonista Aoyama è prima sedato e poi torturato dall'angelica Asami, si assiste, probabilmente, ad un'allucinazione del protagonista, con immagini generate dalla sua esperienza soggettiva, anche se contengono molti elementi a lui ignoti; Miike mescola oggettività e soggettività fino ad arrivare alla probabile ellissi del finale, quando Aoyama si sveglia nella stanza d'albergo accanto ad Asami, come se non fosse successo nulla. In questo caso l'aggettivo probabile è d'obbligo, visto l'ennesimo gioco che in questo caso Miike mette in atto, dal momento che poi tutto [la tortura] ricomincia quando Aoyama riprende sonno. In tutto questo c'è un filo conduttore da ricercare, oltre che nello stile, nella scelta dei personaggi, quasi tutti devianti verso un mondo senza umanità, identità e nazionalità, in fondo non così lontano da quello reale. Altro leitmotiv del lavoro del regista è la costante presenza di differenti nazionalità, che possono essere asiatiche [cinesi, coreane, taiwanesi] o anche brasiliane [Mafia cinese in Giappone [Ley Lines, 1999], City of the lost souls [Hyoryugai, 2000]], e di personaggi dal sangue misto, che sono come intrappolati in una costante lotta per la vita, dalla quale difficilmente usciranno vivi. Ciò provoca una crisi d'identità e di nazionalità, segno che non vi è più via d'uscita.

Riguardo a questo curioso rapporto con i paesi limitrofi [almeno da parte di un giapponese], Miike afferma che la storia di amicizie e sopraffazioni tra Cina e Giappone, ad esempio, ha da sempre fatto parte della cultura dei due paesi, ma anche che oggi non si sente più quel tipo di rapporto e che, quindi, si è chiusa una parentesi. A Taiwan si possono trovare persone che vivono ancora come quarant'anni fa, con una forte identità culturale in loro radicata. In Giappone è un problema di tipo individuale perché un giapponese, se non è in gruppo, difficilmente penserà alle sue radici, al passato del suo paese, mentre insieme ad altra gente, troverà perlomeno con più facilità momenti di coesione che partono da una base più tradizionale.

Miike trova affascinante questo aspetto e quindi non può far altro che rappresentare individui asiatici stranieri, vista la realtà nel suo paese, ma anche meticci, quasi volesse concedere al Giappone un'altra possibilità di rivalsa. Ci regala un Giappone multiculturale, che incrina l'immagine autarchica che si ha generalmente del paese del Sol Levante, un'immagine - o meglio una realtà - che molti realizzatori hanno da sempre contribuito a forgiare.

Nei tre film dedicati alla trilogia sulla mafia cinese [kuroshakai] vi sono moltissime presenze straniere: dal primo Mafia cinese a Shinjuku [Shinjuku Kuroshakai, 1995], nel quale si scopre che lo stesso protagonista [Tatsuhito, che combatte a Tokyo la triade cinese Longzhao] ha un padre che era stato abbandonato in Cina alla fine della Seconda Guerra Mondiale, passando attraverso il secondo Rainy Dog [Nihon Kuroshakai, 1997], per giungere infine al terzo [ Mafia cinese in Giappone], i quali presentano ambientazioni a Taiwan con protagonisti cinesi e brasiliani. Per tornare ad un discorso sul modo, controcorrente, di intendere il cinema - e quindi il mondo - di Miike, la Taipei di Rainy Dog è una città davvero grigia, mostrataci quasi sempre sotto la pioggia, con personaggi ancora più grigi, sbalestrati, senza radici [il dog del titolo è un riferimento esplicito al protagonista]. Il tutto con la presenza di un bambino trascurato e maltrattato a rendere la storia ancora più triste ed inquietante.

Non ci sono imposizioni di regole di condotta, di schemi, di lavori premeditati; ed è in questi deliranti eccessi, in questi sballottamenti e sorprese che si trova tutto il sapere della sua opera.

L'universo di caratteri a cui dà vita il regista di Fudo è qualcosa di fortemente proteso verso il negativo, se si escludono episodi come The birds people of China [Chugoku no chojin, 1998] ed Andromedia [id., 1998], oppure Blues Harp [id., 1998], i quali, eccezion fatta per il valido risultato del primo, sono chiari lavori di commissione, che sottolineano, comunque, come sia vario il repertorio di un cineasta da quattro film all'anno. Universo caratterizzato da incomprensioni ed incompresi, come Asami, la ragazza di Audition, definita, da Miike stesso, come persona che prova spaventose e strane emozioni, e che quindi risulta impossibile arrivare a capire. La fanciulla vuole solo che la persona che ama sia sempre al suo fianco: nella sua mente non commette un grosso crimine, amputa semplicemente i piedi di Aoyama per evitare che questi possa sfuggirle. Allo stesso modo in cui aveva fatto con le altre presunte vittime, ridotte senza piedi e senza lingua, e costrette, per sopravvivere e per esserle ancora più vicine, a nutrirsi di qualcosa che si origini da lei, come da cura materna: del suo vomito.

Questo tipo di cinema riflette uno sradicamento. Gli estremi e talvolta assurdi episodi, incantevoli nel loro audace e cinetico virtuosismo, possono essere fonte di piacere per lo spettatore, così come la causa della malinconia di molti dei personaggi che animano le storie.

 


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