Bright Star PDF 
Giulia Palmieri   

Tra coloro che si avventurano sul campo minato dell’amore, solo pochi arrivano  indenni al fondo della corsa. Jane Campion ci riesce perché rifiuta di affrescare un sentimento per quello che non è: melenso idillio e poesia romantica, senza intoppi o rammendi di fortuna. Nella vita reale non è così oggi e non lo era nemmeno nel 1818, quando oltre alle turbolenze del cuore ci si metteva di mezzo una mondanità indiscreta che non risparmiava gli animi privi di rendita.

Difficile dunque per John Keats, abituato a fare da tappezzeria alle feste, percepirsi in altro modo se non come un uomo “il cui nome fu scritto sull’acqua”. Egli filtra la vita dal vetro di una finestra e non è spinto ad aprirla finché non vi passa davanti Fanny Brawne. Una donna, sempre lei, a sconvolgere quel limbo cameratesco che il Signor Brown, l’immancabile migliore amico, vorrebbe cristallizzato nel tempo, senza intrusione alcuna. Ma non c’è ispirazione tra le quattro mura di una stanza in cui la poesia vuol nascere dalla concentrazione e dallo sforzo, poiché essa per sussistere ha bisogno di aria e soprattutto di occhi capaci di leggerla. Fanny Brawne sarà anche una creatura che consuma i suoi scarpini alla moda a furia di danze, ma non rinuncia certo all’esercizio dell’intelligenza, nascondendo il suo animo dietro ai falpalà. Basterà questo e un po’ di struggente malizia a fare degli ultimi tre anni di vita di John un eterno conflitto di passioni, rimescolate nel buio dove solo “il tatto ha una memoria” e in cui l’ombra della malattia si fa spazio a colpi di tosse.

La voluttà, protagonista in controcanto della pellicola, si manifesta attraverso l’uso delle mani, priva di fragorosi amplessi: mani sporche di inchiostro che creano liriche perfette, mani che cuciono la vanità sugli abiti a sbuffo, mani che si intrecciano e si percepiscono al di là di un muro. Come a sbriciolare il falso mito del poeta osservatore, ben lungi dal limitarsi a guardare la vita senza lasciarsi strattonare dal suo vortice. Le inquadrature soggettive in primissimo piano (come la sequenza iniziale che rincorre l’ago e il filo nel punto croce) contribuiscono a costruire il complesso dei dettagli, arteria principale dentro cui scorre la linfa del film. Il vento irrompe dalle finestre e solleva le tende di quel “palazzo dalle molte stanze” cui Keats amava paragonare la vita umana, la luce irradia gli ambienti rimandando ai chiaroscuri di una tela di Vermeer. La quotidianità appare nella sua lentezza e non vi è fretta di imbastire una trama avvincente o tumultuosa. La stessa colonna sonora accompagna solo alcuni momenti dell’intreccio e rifiuta di mescolarsi alle immagini in quel classico crescendo che sovente abita le scene clou di una pellicola. Si pensi al finale, quando Fanny apprende da Brown che la morte ha inseguito John fino in Italia. Non vi è aumento di volume, non vi è fuga, non vi è musica. Il rumore del dolore non ha bisogno di eco e si materializza in grida convulse che già bastano a commuovere la platea. Aggiungere altro sarebbe superfluo.

Sono dunque la pulizia estetica e il rigore formale a fare dell’ultimo lavoro di Jane Campion un gioiello, come già accaduto precedentemente con Ritratto di signora e Lezioni di piano. La sua “capacità negativa” equivale a quella definita dal poeta inglese, nel tentativo di rappresentarlo quanto più umanamente possibile: è necessario spogliarsi del raziocinio per rimanere ostaggio dell’incertezza a farne una chiave del mistero. I fatti sono solo la cornice entro cui gettare in medias res le esistenze dei personaggi. Di per sé non sarebbero rilevanti se non a livello di contestualizzazione. Questo per sottolineare maggiormente quanto il film, sebbene sia tratto dalla biografia Keats di Andrew Morton, non abbia alcuna pretesa documentaristica che ne possa consentire la vivisezione. É una storia, una bella storia che veleggia sui versi del poeta materializzandoli in chiave metaforica (così ritroviamo il Keats dell’Ode all’Usignolo appollaiato sopra un albero a contemplare il cielo) senza ostentazione, né opulenza, fatta eccezione per i costumi impeccabili che sono valsi a Janet Patterson la nomination all’Oscar 2010.

Se “il poeta è la meno poetica delle creature”, l’interpretazione di Ben Whishaw non appiattisce il personaggio, recuperando quello sguardo da vittima/carnefice che lo rese celebre nel ruolo di Grenouille in Profumo. Abbie Cornish risponde con un’ironia austeniana che non cede mai alla stucchevolezza e si fa carico di una femminilità capricciosa e ostinata, ma terribilmente efficace. Una nota di merito anche ai giovanissimi Thomas Sangster e Edie Martin, figuranti silenziosi e onnipresenti, senza i quali la sceneggiatura avrebbe perso i suoi istanti più veri. É infatti Samuel Browne il primo a comprendere la reale natura della relazione tra sua sorella e Keats, mentre si fa invisibile nel ritirare il suo violino la notte di Natale. Alla piccola Toots, invece, spetta la battuta più bella: quando John e Fanny improvvisano una danza sul crepitante sottobosco, solo lei, rubiconda bambolina di terracotta, avrebbe potuto apparire genuina, rimproverando la prima foglia secca di stagione: “Non tornare più, non c’è autunno qui”. Meno convincente Paul Schneider, troppo americano nei tratti o forse semplicemente succube di un personaggio delineato in maniera quasi superficiale, che invece sarebbe valsa la pena sondare più in profondità.

Altra piccola pecca, l’eccessiva modernità della madre di Fanny, interpretata da una Kerry Fox priva di colpe: la sua recitazione è apprensiva e partecipata, ma fallace sul profilo del carattere. Questo perché già nello script di partenza la signora Brawne è abbozzata in maniera troppo frettolosa. Inverosimile pensare che una madre ottocentesca sia disposta ad accettare il fidanzamento della figlia con un uomo in rovina, apparendo contrariata quando non serve e accondiscendente quando invece dovrebbe dimostrarsi severa. Tuttavia, nessuna di queste imprecisioni nega a Bright Star il privilegio di rappresentare sulla celluloide i versi di apertura dell’Endimione, secondo i quali “una cosa bella è una gioia per sempre”.

TITOLO ORIGINALE: Bright Star; REGIA: Jane Campion; SCENEGGIATURA: Jane Campion; FOTOGRAFIA: Greig Fraser; MONTAGGIO: Alexandre de Franceschi; MUSICA: Mark Bradshaw; PRODUZIONE: Gran Bretagna/Francia/Australia; ANNO: 2009; DURATA: 120 min.

 


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