TOFIFE 2005/Concorso Lungometraggi PDF 
di Umberto Ledda   

In un Torino Film Festival ricco, oscuro e quanto mai vario (si va da Chabrol al trash di Ivan Cardoso passando per i Masters of Horror, con il loro codazzo di sventramenti più o meno politicizzati e di pellicole che vagano dall'orrido pauroso all'orrido e basta), il concorso internazionale lungometraggi è apparso altrettanto schizofrenico e isterico, confusionario e privo di baricentro, allineando lavori buoni, o almeno decenti, a pellicole disastrose e senza speranza, appaiando senza remore sperimentalismo e accademia, sberleffi e tradizione.

L'inizio non è dei più promettenti. Il primo dei film presentati risponde al nome di Sieben Himmel (di Michael Busch), serioso e irritante film sulla memoria, la separazione e l'alterità, sulla necessità di estraniamento e ascesi, troppo preso nelle sue metafore per non cadere spesso nel didascalismo e nel ridicolo involontario, raccontato senza alcuna distanza fino alla retorica e al kitsch, gonfio di sovramarcature stilistiche di banalità esasperante, seccante nel suo ricorrere a provocazioni spesso gratuite, ma con almeno il pregio di una sincerità che suscita rispetto: anche se questo non toglie nulla alla bruttezza del film. Di tutt'altra pasta è invece Alex (di Josè Alcala), film di formazione vagamente dardenniano (ma meno radicale nella messa in scena), storia di una difficile resurrezione umana sottolineata da tutta una serie di metafore più o meno esplicite che non ne minano tuttavia l'impianto realistico, totalmente affidato alla brava protagonista, che si cala senza problemi in un personaggio tanto ferale e scostante da risultare a molti semplicemente odioso. Altrettanto realistico, seppur più tradizionale, è One Night (di Niki Karimi), storia di una notte in Teheran vista da una giovane donna che vagabonda, scarrozzata qua e la da ignoti, cercando di fare mattino: lasciando i problemi sociali sullo sfondo e concentrandosi sul privato, la regista (collaboratrice di vecchia data di Kiarostami) fa un film poco cinematografico, tutto di dialoghi e spesso di monologhi, talvolta interessante, ma che sconta un impianto abusato e mai abbastanza rivitalizzato.

All'opposto dello spettro cinematografico sta invece Voici venu le temps (di Alain Guiraudie), delirante quanto One Night è pacato, a tratti geniale, sempre e comunque eccessivo. Il mondo medieval-postmoderno in cui la vicenda è ambientata è caotico e confuso almeno quanto il film, che butta nel calderone temi pesanti (nientemeno che il rapporto dell'individuo con la società, il rapporto fra i sessi, la satira alla società contemporanea), allegre goliardate, trovate folli (il gruppo punk nella taverna, la spada montabile, il telefono ad albero, le citazioni di Kennedy sulla pubblica piazza), e poi pare perdercisi senza speranza: pieno di ottime idee alla deriva, è un film inafferrabile più per confusione che per scelta, coraggioso e allegramente suicida, difficilmente smerciabile, comunque più bello nella memoria dello spettatore che non durante la (spesso tediosa) visione.

Ottimo senza mezzi termini è invece il vincitore Gravehopping (Jan Cvitkovic, suo il premio maggiore e il premio Holden per la sceneggiatura), film sloveno che si spera di vedere presto nelle sale, una delle migliori pellicole viste al festival (insieme con The Wayward Cloud di Tsai Ming- liang, decisamente il più bel film d'amore degli ultimi anni, e l'abissale, sublime Grizzly Man di Werner Herzog), storia nerissima e agghiacciante che ruota intorno a Pero, compositore di orazioni funebri, alla sua famiglia, ai suoi amici e alla morte. Già osannato da alcuni come l'erede di Kusturica, Cvitkovic ne è invece radicalmente diverso: meno interessato del più maturo regista alla lirica e al surrealismo festaiolo, ha una profondità e un'etica dello sguardo che gli permettono di cogliere la tragedia in sfumature che Kusturica avrebbe calpestato con il suo stile da elefante. Esemplari in questo senso gli ultimi venti minuti, che fanno a meno della parola: Cvitkovic ha l'umiltà, la dignità e il coraggio di non vantarsi, sottolineandolo, di questo suo atto di rispetto. Il premio è meritato, sta stretto piuttosto l'ex equo con un film certamente affascinante ma altrettanto certamente meno potente. Il film in questione, Nuages d'Hier (di Tsubokawa Takushi), è un film delicato e complesso, dalla storia (chiamiamola così) che ruota intorno, dentro e accanto al cinema: di una complessità che rischia più volte l'astrattezza e l'ermetismo (o l'incomprensibilità, dipende dalla pazienza dello spettatore), organizzato secondo nessi mai causali ma sempre lirici, ha un incedere assorto e un immenso rigore formale. Il premio come miglior film appare comunque un'esagerazione.

Approvazione quasi unanime suscita invece Be With Me (di Eric Khoo), lavoro che intreccia storie di finzione e realtà in un'affresco a tratti agghiacciante, ma in fondo pieno di speranza: un film sull'impossibilità di comunicare e sulle vie (preverbali, paraverbali, fisiche) per trovare una nuova comunicazione che superi l'empasse di una società fatta solamente di schermi e cellulari, un film dove domina la figura di Teresa Chan, sordocieca anche nella realtà e unico personaggio che non abbia dimenticato le vie della comunicazione, che commuove in un lungo intermezzo/climax, muto e scandito soltanto da interventi sottotitolati che hanno però il grande difetto di una letterarietà che può irritare lo spettatore: la loro assenza sarebbe stata probabilmente più leale, e forse anche più efficace. Rimanendo in Asia, Mob Sister (di Wong Ching-Po), il concorrente hongkonghese (poteva mancare in una selezione curata fra gli altri da Giona Nazzaro?) è un melodramma femminile che pare non sapere la strada da prendere fra action (per cui il regista dimostra di possedere quantomeno le qualità tecniche) e vicenda umana (per cui dimostra invece una mancanza di talento davvero prodigiosa), e che si perde nei meandri di un formalismo visivamente sublime ma troppo fine a se stesso per trasformare realmente l'insieme, appesantito da una storia priva di vero spessore, retorica e tronfia, e da intermezzi oggettivamente imbarazzanti in animazione a fiorellini.

Di tutt'altra parrocchia registica, approssimativo tanto quanto Mob Sister era laccato, è Les Saignantes (di Jeanne-Pierre Bekolo), programmaticamente folle e confusionario pamphlet futuribile costellato di sesso, violenza e truculenze: può risultare divertente se si è nello spirito giusto e se ne si vedono meno di dieci minuti, ma manca della genialità che dovrebbe sostenerlo, e la messinscena dilettantesca non contribuisce certo a fargli abbandonare lo status di triviale goliardata. Un film che suscita simpatia ma che non mancherà a nessuno. Al contrario, il film statunitense, Police Beat (di Trevor Robinson) è un film altrettanto piccolo, ma di qualità assolutamente superiore, storia di un poliziotto reazionario e repubblicano in quel di Seattle che gira in bicicletta a inseguire pericolosi criminali, trova cadaveri ma non gli assassini (perché non è affare suo), seda liti di famiglia, sogna di uccidere la fidanzata. Il film è consapevolmente televisivo, la demitizzazione è totale, la figura propagandistica post 11/9 dell'eroe in divisa è ridicolizzata, ma senza caricature, e ne viene fuori un ritratto assolutamente umano ma anche assolutamente dignitoso. Il tono è ironico, la messinscena è visionaria e allucinatoria nonostante l'impianto a volte quasi documentaristico.

L'Italia fa in gran parte una pessima figura: assolutamente imbarazzante è Fiaba nera (Alberto Momo), film torinese di cui non si sentiva minimamente la mancanza, più vicino alla videoarte che al cinema, sicuramente, ma velleitario e autocompiaciuto anche da questo punto di vista. Un film insopportabile, ma mai per i motivi che si era preposto il regista (che butta giù provocazioni che ormai non sconvolgono nemmeno più le signore ingioiellate dell'alta società, che anzi - a quanto si è visto - sembrano recarsi nelle sale solo più per godersi la fugace visione di un organo sessuale maschile), dalla pochezza poetica assoluta: per non parlare dello squallore della forma, appesantita da una concezione secondo cui bastano i vezzi stilistici a fare lo stile. All'anteprima i cinquanta accreditati presenti in sala non abbozzano nemmeno l'applauso, qualcosa vorrà pur dire. Alla prima ufficiale, non sono mancati gli apprezzamenti, ma gli spettatori avevano quasi tutti lo stesso cognome. Documentaristico e un po' spaesato è invece il secondo film italiano in concorso (unico film, verrebbe da dire), El barrillete (Alessandro Angelini), storia di un bambino nicaraguense in viaggio nella capitale alla ricerca del fratello, onesto e asciutto nel suo descrivere gli inferni di cui di solito si preferisce non parlare. Altrettanto lontano dal cinema di finzione, anche se decisamente meno riuscito, è il concorrente portoghese, Diarios de Bosnia (Joaquim Sapinho), che non è né un film né un documentario ma, piuttosto un quaderno di bordo realizzato dal regista portoghese durante due viaggi, spesso statico e turistico, talvolta inutile.

Infine, il quattordicesimo e ultimo dei film presentati: un colpo di coda gradevole, divertente, profondamente onesto. Death Rode Out of Persia (di Putyi Horvath) è la storia di uno scrittore alcolizzato e delle sue storie: perfetto e sincero nel descrivere la routine sordida e larvale del bevitore di professione, si libera nella visualizzazione dei suoi racconti, unica vera via di redenzione per un personaggio vagamente disgustoso ma anche compiutamente tragico, che vanno a costruire un quadro indubbiamente autobiografico, lieve, ironico, malinconico. Un film sullo scrivere, sul vivere e sulla differenza che passa fra le due cose, dotato di una grazia e di una profondità che si vedono di rado, ma che comunque non serviranno a far distribuire un film difficile da definire e quindi impossibile da vendere.

Fatti i conti e tirate le somme, è stato un Festival alle volte irritante, spesso estenuante, che dipinge un panorama del nuovo cinema non molto incoraggiante nel suo complesso, ma con qualche risvolto positivo e sporadiche rivelazioni: sinceramente poteva andare peggio.

 


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