Nashville (1975) di Robert Altman e Guy Debord PDF 
Laura Poluzzi   

Robert Altman ci mostra la società dello spettacolo usando come pretesto il Festival Country che annualmente si svolge a Nashville, capitale del Tennessee, con un film corale dalle geometrie volontariamente imprecise, a differenza di quanto accadrà nel successivo America oggi(1993). Attraverso la decostruzione dei canoni tecnici propri del cinema classico americano, il regista intesse una doppia critica alla società spettacolare, soggetto del film e contesto al quale apparteniamo. Una copertina di rivista, mutando lungo i titoli di testa, ci presenta i 24 personaggi,tutti presenti nella cittadina con la sola motivazione di riuscire ad apparire, governati da un egoismo senza scrupoli. Quasi ogni spazio in cui si svolge la narrazione viene visto come luogo possibile per raggiungere la celebrità. La scena che apre il film ci mostra un furgoncino che si occupa della campagna elettorale di un fantomatico “Walker”, il candidato di quello che si presenta come “Il Partito della Sostituzione”, il Terzo Partito. Contemporaneamente al festival musicale, infatti, si svolgono anche le primarie per le elezioni presidenziali.

Non ci è possibile vedere Walker. Il volto individuale del potere è invisibile, ridotto a nome conosciuto di uno slogan pubblicitario, che pervade gli altri campi della società nell’intento di persuadere con gli strumenti magici propri dello spettacolo, anziché convincere attraverso un’argomentazione logica. Lo spettacolo sembra invece trovare un volto simbolico nel misterioso prestigiatore che non parla, non agisce, completamente estraneo alle sottili linee narrative del film. Costui si limita ad effettuare qualche trucchetto e a guardare gli altri personaggi che si esibiscono di fronte alla sua impassibile immobilità. Il festival e i suoi protagonisti verranno gradualmente comprati dal potere politico, incarnato in Triplette, il galoppino elettorale di Walker, per divenire, nello show finale, sponsor del Terzo Partito.

Una forza politica in rapporto osmotico con lo spettacolo, completamente mancante di un’ideologia. Ogni ambito della sfera umana e sociale è pervaso dallo spettacolo. Barbara Jean, cantante di punta del festival, si esibisce in chiesa durante una messa con battesimo. Sono presenti alla cerimonia sia i credenti che i fan; un’occasione che ci permette di accostare gli idoli religiosi agli idoli spettacolari. Le barrette alimentari Goo Goo e King Leo si pubblicizzano finanziando un evento musicale all’interno del festival, con l‘annuncio pubblicitario che va a sostituire la scenografia del teatro, mentre i presentatori, veri “Goo goo men”, invogliano il pubblico all‘acquisto degli alimenti attraverso un gingle composto per l‘occasione. Sueleen Gay, cameriera che aspira a una carriera canora, viene assunta per una serata di finanziamento del Terzo Partito, e costretta poi a spogliarsi con la promessa di potersi presto esibire accanto alla sua cantante preferita.

Questo è il potere della società a spettacolare diffuso, che nella cancellazione della memoria collettiva, per poter vivere in un eterno presente, e nel graduale occultarsi del potere politico, marcia già nella direzione della società a spettacolare integrato, che Debord introduce nei Commentari del 1988. La musica, assieme agli slogan politici che rivelano la mancanza di un reale programma, costituisce un filo rosso lungo tutto il film. Ci sono più di venti canzoni, alcune delle quali sono state fatte improvvisare, dal regista, agli stessi attori in fase di ripresa. La maggioranza dei testi possiede toni patetici e banali come la canzone di Sueleen “I never get enough”, o il pezzo che Haven Hamilton,uomo di spicco della città, canta al Grand Ole Opry.

Anche la cultura perde il proprio valore intrinseco per asservirsi al sogno americano, come ricorda una cantante ,durante uno dei tanti show, ai ragazzini del pubblico: “Studiate sodo perché un giorno, uno di voi potrebbe diventare presidente”. Altman crea un montaggio alternato e discontinuo, nel doppio intento di negare agli eccentrici protagonisti quello spazio che essi desiderano disperatamente occupare, e di spezzare il rapporto che lega il pubblico alla storia che esso chiede al cinema di raccontargli. L’impressione che se ne ricava è che il film giri a vuoto senza svilupparsi mai. Il formato panoramico si fa pretesto per esaltare la compenetrazione tra l’individuo e l’ambiente che lo contiene, sarebbe meglio dire, che lo assorbe. Evitando di approfondire la psicologia dei personaggi e concentrando l’attenzione sui loro comportamenti, il regista cerca di spezzare l’atmosfera di complicità ipnotica che si crea nel buio della sala di proiezione tentando di destare la presenza di spirito dello spettatore cinematografico.

Per esaltare e intensificare primi e primissimi piani Altman ne fa un uso moderato, distaccandosi anche in questo dal convenzionale campo/controcampo del cinema americano classico. Le tracce sonore multiple -ottenute attraverso la tecnica di registrazione a 24 piste- permettono alle persone di parlare ma non di ascoltare, in quanto la conversazione è semplice convenzione, mai dialogo. Come sottolinea Debord nel suo saggio La società dello spettacolo "la conversazione è quasi morta e presto lo saranno molti di quelli che sapevano parlare".
Questo è ben visibile in numerose scene, come quando l’avvocato Reese porta a cena a casa sua Triplette, scusandosi con la moglie in quanto non pensava che costui potesse accettare l’invito. I figli di Reese e della moglie Linnea, la direttrice del coro della città, sono sordi.
Proprio questo handicap sembra simbolicamente preservare i bambini, incapaci di esprimersi come i grandi, dalla corruzione che li circonda, in un’innocenza ovattata. Ci troviamo di fronte ad una società nella quale anche il dolore fisico viene trasformato in performance spettacolare dai mezzi mediatici. I ripetuti collassi di Barbara Jean si fanno spettacolo per i notiziari televisivi. Al contempo, nella stessa inquadratura, coesistono il giornalista e la supporter della campagna elettorale di Walker, in quanto, come ci ricorda Debord “all’interno della stessa immagine si può contrapporre senza contraddizioni qualsiasi cosa”. Mentre la televisione fa degli spettatori merce da vendere alla pubblicità attraverso gli indici d’ascolto.

Anche l’ospedale, luogo solitamente immune da qualsiasi influenza esterna, dove l’uomo, nell’esperienza del dolore, abbandona ogni sovrastruttura propria della società, è qui teatro. Ma rimane ancora un piccolo spazio per un’esplosione frammentaria di verità. Verso la metà del film, Barbara Jean, ancora ricoverata, ha una violenta lite con il marito/manager. Ed è proprio il suo pianto convulso a manifestarsi come sintomo delle contraddizioni proprie della società dello spettacolo. Sotto una patina di apparente perfezione, si cela un individuo dalla struttura psichica debole e regressiva, incapace di sintetizzare l’apparenza con la sostanza. “Mi fai rovinare lo smalto” dice la cantante al marito appena la discussione ha inizio. Infatti, provare dei sentimenti intacca il precario equilibrio dell’io-immagine, che può sopravvivere solo con la cancellazione della personalità, per una fedeltà sempre mutevole al mondo di cui fa parte. Questo è il primo momento del film dal quale emerge l’interiorità, la verità, di uno dei personaggi.


Parafrasando Debord apprendiamo che le Vedette, passando nello spettacolo come modelli di identificazione, rinunciano a ogni qualità autonoma per identificarsi alla legge generale dell’obbedienza al corso delle cose. Essi sono diventati grandi uomini scendendo al di sotto della realtà della minima vita individuale; e tutti lo sanno.  Lady Pearl, altro personaggio di spicco della città e dell’organizzazione del festival, ha un culto necrofilo per i fratelli Kennedy, dimostrazione ulteriore dell’importanza del simulacro spettacolare che sopravvive al soggetto stesso, sostituendo alla storia, un’immagine divenuta mito. Una giornalista inglese, di nome Opal, tenta invano di intervistare i protagonisti del festival che le negano ogni possibile interazione. Intanto cerca il suo cameraman con il quale sta appunto girando il documentario della manifestazione musicale, ma non lo trova. E’ forse lo stesso Altman che, come lei, rimane in superficie con la macchina da presa impossibilitato a penetrare una profondità assente. Opal si ritroverà in una discarica per automobili, cimitero di scheletri inanimati, oggetti del desiderio nella società dei consumi. Frutti che si pongono come misteri svelati della finalità di produzione, per riprendere le tesi di Debord, i quali rivelano troppo tardi la loro povertà essenziale nella casa dei consumatori. Già un altro oggetto si farà portatore della giustificazione del sistema e dell’esigenza di essere riconosciuto. Apparenza di novità e ritorno del sempre uguale sono i due poli della merce, così come li ha identificati Benjamin. La giornalista vaga nella solitudine cercando di descrivere questa caotica entropia, un accumulo di energia inutilizzabile.  Ma le sue espressioni verbali, non riuscendo a staccarsi dalle ideologie politiche novecentesche che le hanno assimilate e fatte proprie, si riducono al farfugliare senza senso dogmi mutevoli.

L’amore e la sfera sessuale non fanno altro che rispecchiare l’incomunicabilità di rapporti che nascono e si esauriscono nello stesso scontro/incontro, ridotti a desiderio di possesso, abitudine e mezzo in funzione di uno scopo altro. Come detto sopra, Sueleen Gay svende la propria anima ed il proprio corpo per apparire sul palcoscenico dello show finale. Così Tom, cantante rock di successo, passa da una donna all’altra come da una droga all’altra, trovando soltanto soddisfazioni effimere. La sera in cui il giovane, che incarna il fascino suggestivo dello spettacolo, si esibisce al locale chiamato “Exit” o “No exit”, il personaggio non lo ricorda, ben quattro donne lì presenti sono fermamente convinte che la canzone “I’m easy” (che ha vinto l’oscar), sia dedicata a loro. Questo ricorda il consumatore di fronte alla merce che si rivolge falsamente a lui come singolo, illudendolo che mezzo e fine siano in verità la stessa cosa.  Un lavoratore che, come ci ricorda Baudrillard, non sa di lavorare.

Lo spettacolo finale si svolge al Centennial Park, di fronte al Partenone feticcio di Nashville. Durante la sua esibizione, Barbara Jean viene uccisa da un giovane psicolabile. Subito il corpo viene portato via, mentre si rassicura la folla di spettatori che lo show andrà avanti. La vedette viene immediatamente sostituita dalla prima persona desiderosa di visibilità, in questo caso una giovane camionista, che inizia a cantare “It don’t Worry me” seguita in coro dalla moltitudine lì presente, che non si sente spinta né all’azione né al dolore, e sulla quale Altman punta la macchina da presa. Spettatori che diventano partecipi, come noi, di questo eterno ed effimero presente. Mai alienazione è stata vissuta con maggior entusiasmo nella società in cui la tragedia, casuale e anonima come tutto il resto, annega nella spettacolarizzazione totale. Le persone vengono facilmente sostituite e dimenticate poiché è necessario salvare lo spettacolo stesso che non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini come specifica la quarta tesi di Debord. Ma l’essenza che dovrebbe costituire il sostrato dell’immagine è assente. Lo spettacolo diviene cuore dell’irreale.

 


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