Elegia d'un viaggio: appunti sul cinema di Aleksandr Sokurov PDF 
di Fulvio Montano   

Qualche anno fa, intervistato da Fabio Segatori per "Filmcritica", Werner Herzog, con malcelato imbarazzo, fece la seguente affermazione: "Non si dovrebbe parlare di morte davanti a una cinepresa che sta registrando. L'obiettivo, la lente che ti sta guardando non è come un occhio vero, ma è come la morte che ti guarda in faccia. È strano, non mi sento molto a mio agio davanti alla macchina da presa, preferisco stare dietro per potermi nascondere e in un certo senso posizionarmi dietro a questa morte."
Come dire: nonostante l'illusione di continuità animata dal flusso ininterrotto della pellicola, fiat morte volle il regista et morte fuit nel cinema.
Una semplice battuta che, se decontestualizzata dalla metafisica del regista tedesco, sembra possedere in nuce tutta la poetica degli ultimi due lavori di Aleksandr Sokurov, Elegia del viaggio (Elegia dorogi, 2001) e L'Arca russa (Russian Ark, 2002).
Due opere a metà strada tra il film ed il documentario - grazie all'utilizzo del supporto digitale – che, focalizzandosi sul viaggio onirico ed irreale di un protagonista mai mostrato, cercano di ristabilire un contatto tra il prima e il dopo rivoluzione sovietica, sminuendo l'esperienza a semplice parentesi del tragico destino cui sembra condannato il popolo russo.

 

Nato in Russia nel 1951, Aleksandr Nikolayevich Sokurov abbandona molto giovane la piccola cittadina di Podorvikha e, al seguito del padre ufficiale dell'esercito, studia in Polonia e in Turkmenia, laureandosi in Storia alla prestigiosa Università Gorky, per poi entrare, nel 1975, all'Istituto Cinematografico di Mosca. Nella capitale lavorerà soprattutto per la televisione, confezionando programmi e documentari e, negli anni Ottanta, con l'aiuto dell'amico Andrej Tarkovskj che lo aveva nel frattempo raccomandato alla Lenfilm, inizierà la sua carriera cinematografica realizzando in vent'anni dodici film e decine di documentari, che gli varranno un indiscusso riconoscimento internazionale, compresi gli elogi all'ultimo Festival di Cannes, dove presenterà il suo film più ardito, L'Arca Russa appunto.
Mentre il suo cinema, ispirato dalla grande sensibilità di Tarkovskj, produrrà un'inedita riflessione sulla morte e sulla solitudine dell'uomo anche attraverso la biografia onirica di personaggi illustri (Hitler in Moloch e Lenin in Taurus), i suoi documentari tesseranno le fila di un'unica accorata elegia della Russia e della sua storia.
Anticipatore dei temi e delle prodezze tecniche dell'Arca Russa, sarà proprio il documentario che realizzerà immediatamente prima dell'omaggio all'Ermitage, il sopra citato Elegia del viaggio, un unico movimento che dalle fredde steppe russe approderà al Boijmans Museum di Rotterdam, interrogandosi sulle esistenze che incontrerà nella cupa notte europea.


Assonanze tematiche evidenti sono anzitutto l'archetipo del viaggio e, naturalmente, quello della Grande Russia, l'arca, opposta al resto del mondo: l'Europa soprattutto. Ma non solo, medesima è anche la scelta di sfruttare al massimo la versatilità del supporto video e di assegnare estrema importanza al lavoro di postproduzione, il quale, grazie alle tecnologie digitali, permette un controllo davvero totale su immagini e suoni ottenuti in fase di ripresa.
Per Sokurov il viaggio è soprattutto mentale, un intenso e personalissimo movimento attraverso i luoghi e i tempi della sua terra, una giustapposizione di momenti irreali stimolati dal sogno che rende possibile l'impossibile: il viaggio nel tempo. Un viaggio fino ad allora immaginato e immaginabile solo al cospetto delle opere che hanno reso immortali i grandi artisti del passato, nei luoghi di culto pagano che ne custodiscono le reliquie: i musei.
Visitare una mostra non equivale forse a viaggiare nel tempo?
Salutato il cupo orizzonte della steppa russa e la solitudine dei monasteri che custodiscono il mistero dell'ortodossia religiosa, conosciuto l'Occidente contemporaneo il cui caleidoscopico agitarsi di culture è ridotto al grigio conformismo della società omologata dal progresso, il protagonista mai mostrato di Elegia del viaggio può finalmente abbandonarsi alla contemplazione dell'arte nelle sale deserte di un museo e, ritrovando la propria identità, sentirsi finalmente parte della Storia.Di fonte alla Torre di babele di Bruegel o alla piazza Santa Maria di Utrecth di Saenredam, in quella solitudine incredibilmente irreale che è un museo senza visitatori, il protagonista rivive il momento della creazione dell'opera, riconoscendo i luoghi e le voci degli attori sulla scena, come fosse stato presente anch'egli.

Nel dipinto, nel passato, il viaggio però non si arresta e, varcata la frontiera, ha un seguito ancora più impossibile e suggestivo ne L'Arca Russa, in cui il respiro dello spettatore coincide con quello del protagonista, abolendo il montaggio e sopprimendo la narrazione in sequenze e stacchi.

 

Se nell'Elegia del viaggio tutto era cupezza e solitudine offuscate dalla neve e dell'increspatura onirica delle immagini, nell'Ermitage ci ritroviamo nel pieno della festa, l'ultima festa prima della rivoluzione: il gran ballo del 1913. La sensazione iniziale è di una strana ansia, di una sorta di inadeguatezza di fronte ad un gesto così estremo quale realizzare un'unica sequenza di novanta minuti, reso per la prima volta possibile proprio da quel digitale che ci scaglia di getto nel futuro, o meglio ci allontana anni luci dal cinema in pellicola.
Difficile decifrare il montaggio implicito ai movimenti di macchina e difficile orientarsi tra le trentacinque stanze del museo, i quattro secoli di storia custoditi dai suoi capolavori e le più di mille comparse che incrociano il nostro sguardo allibito.

Per la prima volta registrato direttamente su hard disk, senza quindi l'ausilio del nastro, l'ultimo film di Sokurov è insomma virtuale in ogni sua componente, libero da qualsiasi supporto analogico e puro insieme di pixel invisibili ed impalpabili. Il cinema insomma è storia vecchia ed il dominio dell'autore finalmente totale; tanto da rendere, come in un sogno, possibile l'impensabile: il cinema live. Non più la morte di cui parlava Herzog quindi, ma la vita, resa con incredibile verosimiglianza nonostante venga mostrata priva di odori e limitata all'audiovisivo.
Paradossalmente, rispetto a quanto si diceva prima sul controllo totale dell'immagine, viene soppressa l'idea di un narratore onnisciente padrone di ciò che accade sullo schermo, mentre l'autore si siede tra il pubblico, limitandosi a portarci a spasso di qua e di là.

Terminata la festa, tra la gente che cianciando abbandona la sala, c'è ancora tempo per uno sguardo oltre le grandi finestre del salone, verso Solaris, quel mare ignoto e un po' ostile che assedia la fantasia, ultimo omaggio a Tarkovskj e al suo genio fuori dal tempo.

 


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