Bye bye Berlusconi! Tra metacinema e (un'impossibile) allegoria politica PDF 
Piervittorio Vitori   

Una troupe scalcinata, mossa da livore e insofferenza per Silvio Berlusconi, decide di girare un film di carattere satirico sul premier: nella finzione, questi verrà rapito da una cellula terroristica che, dopo un periodo di segregazione, deciderà di sottoporlo ad un “processo popolare” via internet. Le riprese sono a malapena iniziate quando si palesano problemi di carattere legale, legati alla necessità di evitare riferimenti espliciti al Cavaliere. La successiva revisione in chiave vieppiù grottesca dello script – con il protagonista che diventa “Topolino”, è sindaco di “Topolonia” ed ha costruito la sua fortuna vendendo angurie – segna l’inizio degli attriti all’interno del gruppo. Una serie di incidenti che si verificano durante la lavorazione e le condizioni di “clandestinità” in cui opera la troupe non contribuiscono certo a facilitare le cose…

A cavallo tra il 2005 e l’inizio del 2006, vigilia delle elezioni politiche che sarebbero seguite ad un lustro di governo berlusconiano, sono in cantiere – in diversi stadi della produzione – tre lungometraggi che pongono sotto i riflettori, fin dal titolo, la figura del Cavaliere. Il fatto che si tratti per la prima volta di opere di finzione, e la coincidenza non solo contenutistica ma anche temporale che lega Bye bye Berlusconi!, Il Caimano e Shooting Silvio, fa sì che, al momento di approcciare criticamente questi film, la domanda “Perché fare un film su Berlusconi?” si ponga con un’importanza decisamente superiore a quella, direttamente discendente, “Come fare un film su Berlusconi?”. Nel caso di documentari come i precedenti Citizen Berlusconi e Viva Zapatero!, la risposta al primo interrogativo sembrava abbastanza scontata: dei due titoli, uno muoveva dalla peculiarità di un fenomeno politico di difficile comprensione fuori dall’Italia (sostanzialmente lo stesso motivo per cui il più recente Videocracy, analizzando questa volta il berlusconismo in termini antropologico/sociali, può aspirare ad un successo maggiore all’estero che non in patria); l’altro dall’esperienza personale dell’autrice, che aveva poi allargato il tiro mirando a farne un pamphlet sull’attuale situazione della tv italiana. Più difficile rispondere nel caso dei lavori di Stahlberg, Moretti e Carboni. L’appiglio più evidente viene da Shooting Silvio, non fosse altro perché è il titolo, tra i tre, in cui l’”elemento Berlusconi” appare più pretestuoso nello sviluppo della vicenda. Lungi dal volerne fare un difetto, si intende con questo sottolineare come il personaggio di S.B. sia solo il motore dell’azione del giovane Kurtz, che del resto nell’economia del film – che è principalmente la storia di un disagio/ossessione – ha un’importanza decisamente maggiore rispetto al Cavaliere. Una delle differenze sostanziali tra l’opera di Carboni e le altre due sta appunto nel fatto che né Bye bye Berlusconi!Il Caimano possono vantare un protagonista – o un ristretto gruppo di protagonisti – veramente forte a livello di struttura (si pensi solo al tempo che si prende Carboni per introdurre Kurtz).

Rimanendo alla struttura, un altro fattore che accomuna Stahlberg e Moretti è lo schema del film-nel-film. Entrambe le pellicole danno quindi la sensazione, da subito o quasi, di affrontare il tema della difficoltà insita nell’idea di realizzare un film su Berlusconi, difficoltà di cui diventano titolari da un lato l’intera troupe protagonista, dall’altro la coppia sceneggiatrice-produttore. E ancora, sia Bye bye Berlusconi! che Il Caimano declinano la succitata difficoltà solo nei termini di una maggiore o minore possibilità. Per essere più chiari, la domanda immediata che lo spettatore si trova a porsi è, in entrambi i casi, “Riusciranno i protagonisti a realizzare i loro film?”. A fronte di  tutto ciò, il quesito su come trattare la figura di S.B., quesito strettamente legato a quello iniziale (“Perché fare un film su Berlusconi?”), sembra passare in secondo piano. In effetti, nel caso di Bye bye Berlusconi!, l’incertezza rimane anche dopo aver consultato le note relative alla produzione stilate da Stahlberg stesso. Scrive il regista: “Una sera guardiamo il film di Marco Bellocchio Buongiorno, notte, che racconta il rapimento di Aldo Moro. Appena terminato il film, Lucia ed io discutiamo animatamente e ci chiediamo se non sia lentamente arrivato il momento di fare un film su un politico vivente, un film attuale, un film su un politico che nasconde del marcio. […] Decidiamo di girare un film sul rapimento del premier in carica: Silvio Berlusconi. Perché non esiste ancora un film cosí?” (1). L’interrogativo può essere legittimo, peccato però che Stahlberg non affronti nella stessa sede quello più necessario, ed opposto: “Perché dovrebbe esistere un film così?” Una risposta la dà comunque Lucia Chiarla, co-sceneggiatrice ed interprete del film (oltre che compagna del regista) in un’intervista a Carta: “Volevamo raccontare il senso d’impotenza che provano gli italiani dinanzi a un individuo che si colloca al di sopra della legge. […] Quel che volevamo fare era rendere universale un problema che in questo momento raggiunge l’apice in Italia. La domanda di partenza, che nasce dall’impotenza di fronte a chi abusa del potere, è eterna: ‘È giusto o no uccidere il tiranno?’” (2).

La domanda di partenza sembra però scivolare ai margini del film man mano che questo prende forma sotto gli occhi dello spettatore. In quest’ottica, l’opzione meta-cinematografica si rivela infatti spiazzante, poiché sposta l’attenzione del pubblico dalla figura di S.B. alla troupe: l’ambizione di trasmettere un messaggio morale universale cede allora il passo al registro grottesco e alla dialettica che s’innesta tra realtà e finzione, divenendo progressivamente il fulcro della pellicola. A posteriori, si capisce inoltre come l’intento iniziale venga frustrato anche dal fatto stesso che il referente prescelto per questa allegoria politica sia S.B. Tra i punti di forza del Cavaliere, a più riprese definito come “anomalia della politica/società italiana”, c’è l’essere appunto una somma di particolarità, ciò da cui consegue un’irriducibilità all’unico, alla singola etichetta: capace di cambiare maschera a seconda dell’occasione e della convenienza, di essere tutto o nulla, S.B. non può essere fatto assurgere a simbolo di niente se non di se stesso. Per questo è estremamente difficile inserirlo all’interno di un progetto finzionale con l’intento di “farlo parlare” d’altro (e in questo senso, Shooting Silvio segna un punto a proprio favore rispetto agli altri due titoli proprio perché non pretende di fornire una “rappresentazione” articolata di Berlusconi). Voler nello stesso tempo fare del personaggio un “tiranno”, renderlo immediatamente riconoscibile come S.B., mettendone in scena sia elementi dell’agire politico che aspetti folcloristici, ed infine spingere sul grottesco per evitare problemi legali significa cercare di far coesistere tre istanze assolutamente inconciliabili tra loro. In particolare, le prime due presumono processi antitetici. Infatti, quand’anche fosse possibile compiere la traiettoria che porta da “Berlusconi” a “tiranno”, operare questa astrazione verticale dal particolare all’universale, la necessità di caratterizzare in maniera inequivocabile il personaggio come S.B., presuppone una dinamica diversa, di carattere orizzontale. La figura, infatti, si allarga a macchia d’olio, moltiplica le sue incarnazioni tanto nella realtà quanto nel ritratto distorto (ma non troppo) che ne fa Stahlberg, trasformandolo nel sindaco faccendiere e corrotto dell’immaginaria Topolonia. Il Topolino di Bye bye Berlusconi! è dunque un venditore d’angurie, un brillante oratore, un discutibile marito e padre di famiglia, uno chansonnier populista… e la lista potrebbe continuare. Troppo, per la riduttiva, e quindi scentrata, etichetta di “tiranno”. Troppo, in generale, per un uomo solo, a meno che ovviamente questo non sia S.B.

Ecco allora che il personaggio finisce con il vampirizzare il film, fagocitandone la dimensione più politica. E gli inserti che maggiormente la richiamano – le scene del G8 di Genova, un rapimento che ricorda quello di Moro o quello dell’imprenditore e politico tedesco Hanns Martin Schleyer, ucciso nel 1977 dalla RAF – finiscono con l’apparire quasi come corpi estranei all’interno del registro grottesco. Un rischio, quello della vampirizzazione, che viene invece evitato da Il Caimano: Moretti riesce meglio di Stahlberg a parlare d’altro, grazie ad una linea narrativa – il livello d’enunciazione principale, che fa capo ai personaggi di Trinca e Orlando – più autonoma rispetto a quella che, in Bye bye Berlusconi!, dà conto delle vicissitudini della troupe. Il problema de Il Caimano è in effetti opposto: quello, cioè, di due linee che spesso sembrano troppo distanti, con il risultato che non è esercizio facile ricondurre le traversie di Teresa e Bruno al più generale clima di un’Italia berlusconizzata. Quanto a questo, Stahlberg non teme invece di dichiarare esplicitamente la relazione stretta tra i due livelli della sua opera, al punto che la dialettica che li coinvolge, come detto, diventa il cuore dell’operazione. Peraltro lo stesso regista ammette che, in corso d’opera e a fronte di tutti i problemi che la produzione stava incontrando – si succedevano vicissitudini di natura legale e finanziaria –, l’idea si era modificata fino a volgere verso un’inclusione cosciente e voluta nello script di questi stessi problemi (3). Stahlberg e i suoi collaboratori, dunque, fanno un film su loro stessi che vogliono fare un film su S.B. (mentre, al contrario, non si può ritrovare Moretti “dentro” Il Caimano).

Muovendo da questo assunto, tenendo dunque presenti i cambiamenti di rotta e le traversie produttive, è finalmente possibile ritrovare l’aspetto più apprezzabile del film: non tanto l’estremizzazione della figura berlusconiana e di ciò che la circonda (anche nella realtà S.B. ha tratti grotteschi, intendendo il grottesco come giustapposizione e compresenza di elementi tra loro opposti ed incompatibili), quanto il rapporto tra i membri della troupe – Lucia in primis – e l’oggetto dei loro sforzi. Gli incroci e i rimandi tra realtà e finzione non sono certo una novità nel panorama delle opere meta-cinematografiche, né il regista ci va leggero nel descrivere il clima di crescente paranoia che avvolge la troupe. Però proprio questo premere sul pedale della tensione, questa ricerca dell’iperbole, è il segno della continuità tra le due linee narrative e al contempo della vitalità dell’operazione. Oltretutto, si potrà discutere sul senso della misura dello script, ma a Stahlberg & Co. va riconosciuta almeno una discreta capacità di strutturare il materiale utilizzato. Scendendo nello specifico, si pensi alla scena – siamo ad un terzo di film – in cui Lucia/Piperina si sente spiata mentre gira per strada: è il primo momento, dopo l’incipit ad effetto, in cui lo spettatore non può attribuire con certezza ciò che sta vedendo all’uno o all’altro livello di enunciazione. Specularmente, circa ai due terzi della pellicola, la morte di Pietro viene introdotta dalla voce over di Lucia, come si trattasse della realtà diegetica: scopriamo invece che si tratta della finzione del film-nel-film, ma è, al contempo, il segnale della definitiva confusione tra le due dimensioni. Confusione confermata in ultima istanza dal drammatico finale: non solo dalla fine della Banda Cazzotti, raccontata da una giornalista che chiama Lucia con il suo vero nome (realizzando così in pieno il corto circuito narrativo), ma anche dalla presenza di Fratelli d’Italia. Nell’ultima scena, infatti, l’inno fa da sottofondo all’ennesima affermazione elettorale del liberato Topolino; all’inizio, invece, lo si era sentito intonare proprio dai membri della Banda Cazzotti, durante la fuga conseguente al rapimento.

Già in precedenza il film poteva adombrare, forzando un po’ l’accostamento tra realtà e finzione diegetica, la teoria di un potere che oggi ha la capacità di confinare nell’illegalità il dissenso culturale così come trent’anni fa si muoveva nell’illegalità quello armato. Procedendo nel parallelismo con i precedenti storici, ci si può chiedere se il finale voglia suggerire l’idea che la resistenza culturale di oggi è inevitabilmente destinata ad essere sconfitta come quella armata di ieri… Ma probabilmente un’interpretazione di questo tipo trascenderebbe le intenzioni del regista. Quello che allora resta è un’opera che, pur fallendo nelle sue ambizioni allegoriche e “universaliste”, non per questo è disprezzabile, in virtù di una struttura ben congegnata. Certo, per un lungometraggio di finzione che racconti efficacemente l’Italia di oggi a partire da o intorno a S.B. bisognerà attendere ancora.

Note:
(1) Jan Henrik Stahlberg, Satira è quando nonostante tutto si ride (www.bybyeberlusconi.com)
(2) Christian Del Monte, Prossimamente sui loro schermi, “Carta” settimanale n. 9, 06/03/2006, p. 8.
(3) J. H. Stahlberg, cit.

TITOLO ORIGINALE: Bye Bye Berlusconi!; REGIA: Jan Henrik Stahlberg; SCENEGGIATURA: Lucia Chiarla, Jan Henrik Stahlberg; FOTOGRAFIA: Nicolas Joray; MONTAGGIO: Nicola Undritz; MUSICA: Phirefones; PRODUZIONE: Germania; ANNO: 2006; DURATA: 86 min.

 


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