L'ora di religione: incertezza e dinamica coerenza PDF 
Piervittorio Vitori   

È bella una tale certezza,
ma l’incertezza è più bella…

(Wislawa Szymborska)

Lo sguardo di un genitore verso il figlio e un sorriso aprono L’ora di religione. Lo sguardo dell’altro genitore verso il bambino e un altro sorriso (accennato, abbozzato, incerto) chiudono il film. C’è un parallelismo evidente tra gli “estremi” dell’opera con cui – l’anno è il 2002 – Marco Bellocchio mette in scena la vicenda del pittore Ernesto Picciafuoco, interpretato da uno splendido Sergio Castellitto. Ateo, solitario e distante tanto dalle ideologie quanto dalle forme di identità sociale, il protagonista si ritrova invischiato nelle trame ordite dalla famiglia per canonizzare la madre, uccisa da un altro figlio. Il parallelismo di cui sopra ritorna in tutta la pellicola, un gioco di rimandi contenutistici tra la prima e la seconda parte che pare quasi costruire una struttura concentrica: dopo il titolo, ecco Leonardo con la madre, quindi Ernesto che “muove” sul computer l’immagine della Gradiva (l’antico bassorilievo di una figura femminile che ispirò Jensen, Freud e Dalì), l’arrivo del prete che gli dà la notizia del processo di canonizzazione, la festa e l’incontro con il conte Bulla… Specularmente, il finale si dà a partire dal duello con il conte, per passare alla distruzione (virtuale) del Vittoriano ad opera della Gradiva, all’amore con Diana (incarnazione, come si vedrà, dell’opera d’arte). Quindi lo stacco sulla famiglia, pronta all’incontro con il Pontefice, e il ritorno ad Ernesto, ora con il figlio davanti alla scuola. Volendo schematizzare, otteniamo una struttura iniziale 1-2-3-4 che alla fine diventa 4-2-3-1: un’inversione non perfetta ma abbastanza chiara da farci intuire come la sceneggiatura sia stata costruita con tanta abilità da riuscire a dare sufficiente ordine ad una mole di materiale complessa e, in partenza, non facile da padroneggiare.

Esattamente al centro del film, chiave di volta del suo sviluppo narrativo, è collocata la scena dell’incontro tra il protagonista e la zia Maria, antagonista principale e titolare esplicita di tutti i valori cui Ernesto si oppone. Nel dialogo tra i due personaggi è infatti rintracciabile tutta la serie di opposizioni che sorregge la struttura drammatica della pellicola: potere vs libertà, famiglia vs amore, ruolo filiale vs ruolo paterno, denaro vs arte ed infine, a monte di tutto, convenienza vs coerenza. Considerando le prime tre coppie di opposizioni, si nota come la figura della zia – insieme a quella più defilata (o meglio chiaroscurale, almeno dal punto di vista del sistema valoriale) del conte – sia quella di chi ragiona in un’ottica macrosociale. Il fatto che persegua una realizzazione non personale ma eterodiretta è il riflesso di un quadro relazionale più ampio nel quale cerca di coinvolgere Ernesto e dal quale, di contro, il protagonista cerca di svincolarsi. Un quadro che, negli elementi che più direttamente fanno riferimento alla dimensione familiare, riporta a precedenti prove del regista. Ancora una volta, come ne I pugni in tasca (che quasi tutta la critica nostrana, con il beneplacito dello stesso Bellocchio, ha scomodato) siamo in presenza di una pluralità di fratelli privi di padre e che uno di essi ha privato della madre. Ma se in quell’esordio il matricidio aveva il sapore di una liberazione collettiva e dunque un senso condiviso, qui la comunità familiare opera una rielaborazione a posteriori nel segno della restaurazione: il successo dei singoli non passa più, ci viene detto, attraverso la rimozione del genitore, ma viceversa attraverso il suo recupero. Addirittura – è sempre la zia a dichiararlo – la riaffermazione della figura materna, in versione corretta ad hoc, è propedeutica all’individuazione di un surrogato sociale di quella paterna. C’è quindi, su due diversi livelli, un’analoga tensione verso il passato, cui non è in fondo dissimile l’ideologia politica per l’appunto “restauratrice” del conte Bulla. In questo contesto, la pressione cui è soggetto il protagonista è quella che lo vorrebbe ritornare ai ruoli di marito (si veda l’inizio del dialogo con la zia, quando questa gli sconsiglia di separarsi da Irene) e di figlio, devoto e convertito, della “santa”. L’intento di ricollocare Ernesto in posizione filiale è magistralmente espresso dal regista nell’immagine in cui vediamo l’uomo dominato dal telone che raffigura il volto sorridente della madre: in evidenza c’è appunto quel sorriso in cui l’uomo vede riflesso il proprio, elevandolo dunque a simbolico cordone ombelicale da recidere per recuperare la propria libertà. L’identificazione tra la figura materna e l’unità del nucleo familiare è poi accentuata dalla notazione per cui lo stesso sorriso caratterizza anche la moglie del protagonista, come abbiamo notato all’inizio. Una figura, quella di Irene, alla quale è applicabile con appena un minimo sforzo la definizione che l’uomo dà della madre nel colloquio con il cardinal Piumini: “Era stupida, in quanto non capiva nulla… Era senza passioni…”. E se può apparire esagerata l’idea di cogliere una sfumatura edipica nel rapporto matrimoniale, certo la rete di relazioni che circonda Ernesto ci fa capire come questi debba faticare per smarcarsi del tutto dalla posizione filiale.

Una dinamica, quella che porterà il protagonista alla “liberazione”, che trova il suo motore nella figura di Diana, ovvero Gradiva, la figura del bassorilievo, la donna che cammina. E il camminare, l’avanzare, l’andare avanti (oltre) sono d’altro canto diversi nomi attribuibili ad un’altra chiave di lettura dell’opera. La citata tensione al passato, la spinta alla restaurazione che caratterizza gli antagonisti trova il suo fine ultimo nel perpetuarsi delle strutture sociali, in un tetro ed antistorico immobilismo. Elemento, questo, che trova un riscontro visivo sia (nuovamente) nell’immagine del ritratto materno sia, e con forza ancor maggiore, nell’architettura magniloquente del Vittoriano, che assume una funzione complessa. Si propone, infatti, come un ulteriore richiamo alla figura genitoriale sia dal punto di vista storico-sociale è (“I nostri eroi sono là”, osserva il figlio acquisito Filippo Argenti) che da quello simbolico, se non psicanalitico, poiché la mole del monumento che domina la Gradiva (si ricordi la scena iniziale di Ernesto al computer) fa pendant con quella del ritratto della madre che sovrasta il protagonista.

Il film, apparirà ora chiaro, ha molto da dire anche quando approcciato nell’ottica di un’analisi spaziale: agli spazi ampi, alle alte volte e alle penombre delle strutture con cui possiamo identificare gli antagonisti (il citato Vittoriano, il palazzo in cui si tiene la festa tra gli alti prelati, la casa della zia), si oppone quella, quasi labirintica, della casa di Ernesto. E se carattere proprio del labirinto è l’incertezza, l’impossibilità della visione d’insieme, ecco che proprio la casa del pittore – nelle belle scene in cui Diana si muove leggera tra le stanze – è il teatro in cui si danno le tre figure che, allo stesso modo, sono segnate da questo carattere. Ernesto, come detto, rifugge dal monolitico sistema valoriale cui cerca di costringerlo la zia; la ragazza ha un’identità ambigua (finta insegnante di religione, è stata messa sulla strada del protagonista dai suoi familiari o no?); la Gradiva, infine, la cui copia è presente nello studio del pittore, in quanto bassorilievo nega una sua metà allo sguardo dell’osservatore. Altro elemento comune ai tre, oltre al dinamismo e all’incertezza, è la bellezza: tratto proprio delle due figure femminili, ad Ernesto è familiare in quanto prodotto della creazione artistica (e si noti anche qui una contrapposizione, stavolta nei confronti della zia che non capisce i suoi quadri).

Ritornando allora al Vittoriano, ecco un’ulteriore funzione della sua figura, quella che dal punto di vista estetico lo vede riassumere in sé il senso del brutto e del kitsch, come esplicitato dalle parole dell’architetto che il protagonista incontra nel nosocomio. Kitsch che oltretutto era già stato proposto con evidenza, insieme ad un grottesco quasi felliniano e prossimo a derive oniriche (ovvia citazione anche per Buñuel), nella scena della festa alla quale il protagonista incontra il conte Bulla. E come la Gradiva, nella scena al computer, abbatterà il moloch architettonico, così la giovane donna libererà il pittore dalla gabbia familiare. Prima però, si dà la scena più emozionante di un film a cui altrimenti sarebbe imputabile un eccesso di freddezza e di rigore strutturale (accusa che paradossalmente potrebbe fare leva anche sugli interessanti richiami all’opera di Kafka e Pirandello). È quella dell’incontro tra Ernesto ed Egidio, il fratello matricida, in cui Bellocchio riesce nell’impresa di proporre uno sviluppo narrativo assolutamente coerente con quanto detto fin qui e al contempo di operare appunto un netto scarto, quanto a pathos, con il resto del film. Se ciò è possibile è perché del protagonista Egidio è un alter ego sconfitto, vinto dall’azione congiunta dell’istituzione familiare e di quella sociale a livello più ampio. La bestemmia in cui l’uomo prorompe non è dunque un espediente drammatico fine a se stesso o dettato dalla volontà di scandalizzare: proponendosi come rottura rispetto all’”immobilismo” della parola a cui era tornato dopo il delitto (e quindi come momentaneo salto in avanti), è invece l’unica forma di ribellione che, a quelle condizioni, gli è concessa. E proprio la coscienza della sua impotenza e dell’effimerità del suo gesto liberatorio fa scattare l’abbraccio di Ernesto e, con la sua solidarietà, l’emozione dello spettatore.

Nella ribellione di Ernesto, invece, c’è un ultimo elemento da considerare: la coerenza, di cui il sorriso si fa strumento per segnalare l’ipocrisia altrui. Infatti, dopo l’istintivo rifiuto di corrispondere all’immagine materna, la conclusione cui il protagonista giunge – e noi con lui – è che se per la donna il movimento facciale era il segno di un piatto adeguamento ad un sistema valoriale, per il protagonista è il simbolo del rifiuto di esso. Proprio per questo motivo l’uomo si rivela irriducibile alle intenzioni della zia: perché se lei subordina il suo agire a valori assoluti e non negoziabili (quelli elencati al principio: famiglia, denaro, potere…), lui le oppone soprattutto un qualcosa – la coerenza, appunto – che non è valore ma criterio, non fine ma mezzo. Il prezzo da pagare è evidente: la coerenza da sola “non basta” (citando la poesia di Tarkovskij padre, che nel film viene recitata significativamente da Diana), giacché così “rischia di diventare moralismo, di essere ottusa”. Deve mescolarsi con l’affetto, accettare prove quotidiane. Alla fine, dunque, dopo che il duello con il conte l’ha portato per l’ultima volta verso la tentazione di un sistema che non gli appartiene, Ernesto rifiuta l'"assicurazione" (così gli viene più volte presentato il vantaggio derivante dalla canonizzazione della madre) scegliendo invece il suo opposto, il rischio. L’incertezza.

Chi è veramente Diana? Nemmeno giunto a fine film l’uomo lo sa, eppure abbraccia entusiasticamente tutte le possibilità e le incognite che, con essa, la vita gli presenta. È davvero un sorriso quello che gli increspa il volto mentre vede Leonardo entrare a scuola? Non lo sappiamo, ma sappiamo che comunque il protagonista ha vinto la sua battaglia.

Note:
Marco Bellocchio, da Emanuela Martini, La coerenza delle piccole azioni. Intervista a Marco Bellocchio, in “Cineforum” n. 415, giugno 2002, p. 12.


TITOLO ORIGINALE: L’ora di religione; REGIA: Marco Bellocchio; SCENEGGIATURA: Marco Bellocchio; FOTOGRAFIA: Pasquale Mari; MONTAGGIO: Francesca Calvelli; MUSICA: Riccardo Giagni; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 2002; DURATA: 103 min.

 


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