Invictus, Eastwood e la politica PDF 
Umberto Ledda   

Eastwood
È curioso come l'icona Eastwood contraddica perfettamente, e continuamente, la sua opera. Negli anni Sessanta, parlando del Clint Eastwood senza nome dei film di Leone, si diceva che possedeva due espressioni: con il sigaro e senza sigaro. Come affermazione, per quanto ne possano dire i fan, era del tutto vera, e in quanto totalmente vera, dimostrava fra l'altro un completo fraintendimento di quello che il cinema di Leone stava portando, di nuovo, nel cinema di quegli anni. (Fra parentesi, la mentalità che produsse un'affermazione così denigratoria è la stessa che oggi si accalca a sottolineare la maestosa e classica complessità dell'Eastwood regista). Un personaggio binario, con o senza sigaro, è il segno di un cinema che non si cura minimamente della mimesi, e va in una direzione diversa, astratta, libera, consapevolmente metatestuale.  Sostanzialmente estranea a qualsiasi discorso sul reale e, di conseguenza, estranea a una presa posizione sul reale, sull'attualità e sul suo scorrere. Gli stessi che accusarono il protagonista di inesistenza recitativa condannarono il cinema di Leone con l'accusa di disinteresse. Il discorso, lasciando da parte Leone e rimanendo su Eastwood, si rafforzò negli anni Settanta, quando Eastwood passò dal disinteresse leoniano a quello che fu considerato come una presa di posizione aperta in senso fascistoide e violento, con la serie dei Callaghan: incitazione alla violenza, mito superomistico della giustizia solitaria, difesa di sé attraverso l'eliminazione dell'altro, varie ed eventuali. Anche in questo caso, Eastwood manteneva una sorta di minimalismo recitativo, astrattissimo: volto di pietra, psicologia marmorea e inespressività verbale. I film di Callaghan erano niente di più e niente di meno che quello: codice puro. E ogni codice è conservatore di per sé, perchè perpetra un elemento atavico che risale a epoche in cui il concetto di sinistra e liberalismo erano sconosciuti. Era il tempo in cui perfino il western cercava di essere di sinistra. La cosa non piacque. Per come si sono poi messe le cose è probabile che Eastwood, dal canto suo, fosse del tutto estraneo a qualsiasi visione politica e di attualità, iniziando a ragionare più in termini di etica, termini astratti e assoluti, decisamente lontani dal realismo. La sua tendenza all'etica, non appena iniziò a girare film di un qualche spessore,  fu presa  anche questa volta per un elemento fascista (nel frattempo, aveva commesso l'errore di non rimanere semplice attore incolpevole dei film di Callaghan, ma di farsene regista, e quindi autore, e quindi responsabile). In realtà, Eastwood non è mai stato, nella sua carriera di regista, di attore e di persona, un uomo di destra. Tutte le volte che gli è stata data la possibilità di esprimerlo, è sempre stato un umanista conservatore. Sono due cose diverse. L'umanista conservatore tende ad essere preso per un destrorso (e talvolta, a identificarsi personalmente con la destra) per il semplice fatto di percepire molte delle istanze della sinistra come idealistiche, irrealizzabili, intimamanente incompatibili con la realtà degli esseri umani, con i loro pensieri e i loro cuori. Dargli torto, nonostante tutto, è impresa più complessa di quanto non sembri.

Politica
Il cinema di Eastwood sembra essere di destra, se lo si guarda meglio appare di sinistra; guardandolo ancora meglio, non è né l'una né l'altra cosa. Sulla base di questa onorevole inafferrabilità è stato considerato un paradosso fin dai tempi della sua maturità registica (Gli spietati, o giù di lì). Un uomo di destra, responsabile in prima persona, nei panni di Callaghan, della corruzione dei giovani nel nome della giustizia personale e del mito antisociale della violenza, un uomo che si dichiara, effettivamente, repubblicano e conservatore, che fa un cinema di complessità morale impressionante e che finisce per mandare all'aria le grottesche semplificazioni etiche del suo stesso campo politico di appartenenza. Ergo, che finisce con l'essere un paladino della mentalità liberale e di sinistra. Il conservatorismo di Eastwood è troppo intelligente per accettare supinamente quanto proposto da coloro che si dichiarano conservatori, e le sue posizioni su temi pesanti (eutanasia, per dirne uno) finiscono con l'essere anche più avanzate di quelle propugnate dalla sinistra. (Questo ovviamente non rende Eastwood un uomo di sinistra, piuttosto rende evidente che gli uomini che si arrogano il ruolo di sinistra e destra stanno semplicemente litigando come cani intorno a un osso immaginario: Eastwood è uno dei pochi uomini di cultura rimasti la cui semplice esistenza è rivelatrice nei confronti della realtà delle cose). Cane sciolto e poco avvicinabile, la figura del regista americano somiglia da lontano (più nelle suggestioni che nella sostanza) a quella di un Pier Paolo Pasolini, che in Italia finì con l'essere odiato dalla sinistra come dalla destra per il semplice fatto di non essere afferrato da nessuna delle due. Diversissimi, entrambi sono umanisti conservatori. Entrambi hanno due palle così (la definizione sembra essere l'unica che rende l'idea, senza incorrere in eufemismi riguardanti pelo sullo stomaco o generiche attestazioni di coraggio). Tutto questo per arrivare a Mandela. La scelta del leader sudafricano appare a prima vista paradossale. Un personaggio che immancabilmente porta con sé tutta una serie di tematiche intimamente libertarie, intimamente controculturali e in ultima analisi intimamente di sinistra: la ribellione contro un establishment razzista e moralmente corrotto, l'istinto di autodeterminazione dei popoli (uno dei grandi dogmi bipartisan della cultura americana), la lotta contro il predominio del ricco sul povero, del diseredato contro il privilegiato, del nero contro il bianco usurpatore. Adottando, fra l'altro, un tono meno problematico del solito, più celebrativo, se solo Eastwood potesse riuscire ad essere in qualche modo celebrativo. Il buon vecchio, da parte sua, esplicita fin da subito un'accusa implicita all'establishment repubblicano, legando l'immagine del liberatore Mandela a quella che nel Sudafrica ufficiale del tempo veniva utilizzata: quella del terrorista. Invictus, all'inizio, sembra il film di sinistra di un uomo di destra, una rischiosa palla giocata su un campo non proprio.

Invictus
Poi si continua a guardare e sembra che in realtà non sia cambiato molto rispetto ai film precedenti. Il Mandela di Invictus è un uomo. Non è, in questo, così distante dai personaggi a cui Eastwood ci aveva abituato negli ultimi tempi. Semplicemente, la macchia nel suo passato non è una colpa, ma un oltraggio subito, un oltraggio incommensurabile come incommensurabili erano le colpe di molti dei protagonisti eastwoodiani, da Gran Torino a Gli spietati. Il Mandela di Eastwood è quindi un uomo più sereno nei confronti di sé stesso, meno sereno nei confronti del mondo che, dopo una vittoria sofferta, deve affrontare: non è la sconfitta esistenziale il focus di Invictus, ma la lotta della vittoria, lo scontro con una realtà che è inevitabilmente più complessa di quanto la passione della lotta non lasciasse presagire. Quello di Invictus è un Mandela vecchio e che sa di esserlo. Del protagonista di Gran Torino, e di mezza filmografia attoriale eastwoodiana, sembra avere addirittura qualcosa del carattere indurito, della certezza di sé acquisita nella sofferenza: nel Mandela di Eastwood è presente più astrazione leoniana di quanto non ci si sarebbe potuti aspettare. Risultava meno evidente altrove, ma ora, nel confronto con la Storia e con una figura pubblica di grande portata, diventa chiaro come molto della stilizzazione con cui Eastwood ha imparato a fare cinema sia entrato nel suo stile, costituendo un tappeto astratto al suo sontuoso realismo. Una retorica del minimalismo psicologico, della sottrazione recitativa. Focalizzazione ad altezza d'uomo e astrazione sotterranea scongiurano il rischio della caduta nel biopic: Invictus è un film su Mandela ma rimane violentemente un film di Eastwood, con un saggio vecchio e determinato, anche se insolitamente educato e benevolo, per protagonista. Un uomo di forza e di valore in una comunità divisa e scossa, e soprattutto, almeno all'inizio, inferiore alle aspettative che lui stesso aveva immaginato potesse possedere. Un Sudafrica che puzza di America, così come l'America dei film precedenti ricordava, nella sua realistica astrazione, qualunque luogo. Per quanto venga da un libro (dal titolo piuttosto indicativo di Playing the Enemy) e dalla volontà di Morgan Freeman di interpretare Mandela, Invictus è tutto sommato un film con lo stesso impianto dei migliori film di Eastwood: la differenza, e quindi l'interesse del progetto insieme con la sua debolezza, è nell'umore. Invictus è la storia di una speranza e di un sogno.

Schiacciato artisticamente fra ruoli inconciliabili, Clint Eastwood lavora ormai da anni con il tema della riconciliazione e della ricomposizione degli opposti. Lo ha fatto con Gran Torino, che con Invictus condivide anche la tematica del razzismo, e che come Invictus parlava di due mondi pregiudizialmente opposti per reciproca ignoranza, e del tentativo di comunicazione. Oppure il dittico di Iwo Jima, che rappresenta una vera e propria bandiera del cinema di Eastwood: il desiderio di raccontare l'idea stessa di conflitto inconciliabile e inconciliato, così inconciliato da dover fare due film gemelli, ma separati, per riuscire a raccontare la Storia da una prospettiva organica, per offrire entrambi i punti di vista. Una prospettiva cinematograficamente tragica, quasi un'ammissione di impotenza di fronte alla difficoltà reale di mettere insieme le ragioni di mondi diversi. Ora, anche Invictus parla di questo. Il Sudafrica immediatamente successivo all'apartheid è un universo che sembra rifiutare la svolta e dove i bianchi continuano a odiare i neri e dove i neri con parecchie ragioni in più continuano a odiare i bianchi: cosa non nuova in Eastwood, è lo sport, il rugby in questo caso, ad essere investito del ruolo di pacificatore. Uno sport nazionale con una caratteristica infame nel Sudafrica di quegli anni: era uno sport dei bianchi oppressori, era il segno stesso dell'apartheid e del razzismo, era una cosa sporca e macchiata di sangue per la maggioranza nera. Invictus è piuttosto esplicito in quanto a tesi: è solamente attraverso il tentativo di diventare parte dell'altro, solamente attraverso l'accettazione dei simboli del nemico, che si può sperare di conciliare il conflitto. È un tema tipicamente eastwoodiano, con una lunga serie di implicazioni morali e politiche sottili che non di rado sono apparse inquietanti.

La principale (e fondante e rivelatrice) differenza con i lavori precedenti di Eastwood è che in questo caso il regista sembra crederci. O è obbligato a crederci da Storia e sceneggiatura. Perché se in Gran Torino l'unione degli opposti avveniva attraverso la tragedia e la morte, e se nel dittico di Iwo Jima non poteva tecnicamente accadere, un po' perchè non accadde, un po' perchè si trattava di due film e di due universi separati, in Invictus gli opposti si riconciliano. Al rugby di Invictus riesce quello che non era riuscito il pugilato di Million Dollar Baby: portare felicità e speranza di un universo migliore. È una felicità piena, priva almeno in superficie di zone d'ombra: e stranamente, nonostante tutto, ha in sé qualcosa di sbagliato. Non è il fatto che sia meglio il pessimismo cosmico rispetto all'ottimismo. Non è questione di verosimiglianza storica, il Sudafrica nel 1995 la coppa la vinse, è più una questione di verosimiglianza umana, psicologica. Messosi a sfidare la realtà su un piano diverso, e con una focalizzazione più sghemba rispetto a come affrontò la seconda guerra mondiale nel dittico di Iwo Jima, Eastwood sembra patire la storia, sembra patire il risultato positivo, sembra quasi non riuscire ad avvicinarglisi del tutto. Dato un risultato storico positivo, Eastwood sembra legnoso nel ricostruirne i passi con verosimiglianza. Il Mandela di Freeman, con tutta la sua icastica saggezza, elimina dal tavolo di lavoro tutte le altre complesse variabili che non siano quella ideale e quella della resistenza del suo popolo alla riconciliazione, fra l'altro rendendole schematiche e superficiali. E Francois Pienaar, il capitano della nazionale di rugby a cui Mandela affida il compito di creare una nazione, diventa un baldo giovine la cui conversione all'ideale è totale e assoluta e, anche in questo caso, non sembra tener conto delle pulsioni sociali e umane più profonde. In generale, Invictus sembra quello che probabilmente voleva superare: un buon film sportivo. In assenza di una tragedia esplicita, e in presenza di una sceneggiatura troppo legata agli schemi del cinema di sport, Eastwood sembra perdere la capacità di andare oltre, di mostrare davvero le dinamiche della riconciliazione degli opposti inseguita da decenni dal vecchio regista americano. Sperare, con la Storia di mezzo, è una questione complicata. Eastwood è epicamente bravo a girare, e un suo film sportivo imbottito di mischie e conflitti e onore sul campo avrebbe potuto costituire un tassello importante nella top ten dei grandi film sullo sport, vale a dire dei grandi film su uno dei due-tre temi più metaforici nell'intero marasma delle storie possibili. Ma l'evidente presenza di un tentativo di rappresentare maturamente il successo etico, e la fragilità del risultato di questo tentativo, finisce col far dubitare anche dell'aspetto puramente sportivo: viene il dubbio che l'idealizzazione stia influenzando il gioco, e che la vittoria sia truccata.

Invictus è il progetto che più si avvicinava, nella carriera arcigna e eticamente scorretta dell'ultimo Eastwood, alla speranza e alla luce. Il suo film più di sinistra, laddove la differenza tra sinistra e destra che ci si immagina nella testa del vecchio regista è principalmente un diverso livello di speranza che le cose realmente possano girare a favore degli esseri umani. Nei lavori precedenti, la speranza di una riconciliazione sia etica che reale (cioè che si potesse raggiungere eticamente la vittoria del conflitto e contemporaneamente rimanere vivi) era poco più che puerile, per quanto in buona fede. In Invictus Mandela e il suo Sudafrica portano a casa sia il risultato morale, sia quello pratico: vincono la partita, rinsaldano una nazione, guadagnano l'unità degli opposti, e nel farlo nessuno vende l'anima. Ciononostante, Invictus rimane un film di efficacia proporzionale all'immensa caratura di Eastwood come metteur en scene: viene davvero voglia di crederci, e probabilmente va più che bene così, e il cinema non è luogo di analisi e di rivelazioni ma di sogni. Ma Eastwood era così bravo e così lucido a mostrarci come non ci fosse speranza che ora che cerca di mostrarci che la speranza c'è qualcosa non torna. Una sensazione amorfa di ipocrisia e di illusione, soltanto. Nostalgia della tragedia forse, perchè in Eastwood la tragedia aveva la complessità del reale, e la sua tragedia dava sempre la sensazione di insegnare qualcosa che poi sarebbe stato spendibile in termini di conoscenza dell'uomo e del mondo. E in Invictus questo non accade.

 


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