Funny Games PDF 
Matteo Marelli   

ImageFunny Games di Michael Haneke costringe lo spettatore a riflettere sulle implicazioni morali sottese al proprio ruolo. L'analisi del rapporto tra violenza e media e il ruolo di primaria importanza svolto dallo spettatore sono da sempre al centro del cinema del regista austriaco, convinto che non possa esserci pretesa d'innocenza da parte di chi guarda, poiché lo sguardo inevitabilmente partecipa a ciò che vede, e in quanto testimone è sempre moralmente coinvolto. Funny Games è un’operazione quasi perfetta di ricalco dell'omonimo film del 1997 diretto sempre da Haneke. A differenziare le due pellicole è la produzione che ne sta a monte, e conseguentemente gli interpreti, questa volta di respiro internazionale. Il senso dell'operazione è da rintracciare nel parziale insuccesso del film originale. Funny Games del 1997 nasceva come reazione alla spettacolarizzazione e mercificazione della violenza di certo cinema americano. Trattandosi di una produzione austriaca, con attori sconosciuti in America, il film non riuscì a raggiungere il pubblico statunitense, al quale desiderava principalmente rivolgersi. Da qui la necessità di riproporre la pellicola avvalendosi di finanziamenti che potessero garantirgli una più efficace distribuzione. Parafrasando Walter Benjamin, Haneke può così riuscire ad introdurre la riproduzione dell'originale in situazioni che all'originale stesso non sarebbero state accessibili, accrescendo così le potenzialità di contestazione dell'opera nei confronti delle logiche spettacolari dominanti.

Haneke decide di confrontarsi con il genere, di realizzare un thriller. E si dimostra straordinariamente abile a costruire la tensione attraverso l'accumulo di elementi minimi e all'apparenza insignificanti, come due paia di insoliti guanti bianchi, uno sguardo sfuggevole, una frase ripetuta o una gentilezza troppo insistita. La sua macchina da presa scruta il banale per trovarvi le insignificanze più stridenti. Ed è proprio nel momento in cui questa tensione dovrebbe trovare un suo tragico soddisfacimento che il regista elude e delude le attese. Lo scarto sostanziale tra Funny Games e tanto cinema hollywoodiano sta nella differente trattazione della violenza, che è tanta e tremenda, ma che qui è tenuta sempre fuori campo: di ogni aggressione è mostrata unicamente la conseguente sofferenza fisica e l'annichilimento morale. Haneke nella scelta di rendere invisibile gli abusi, le brutalità, si distanzia nettamente dalla logica dominante della commercializzazione della sofferenza. I momenti di crudeltà si consumano invisibilmente: un gesto d'impedimento profondamente morale e accusatorio, che denuncia la specularità tra carnefici e spettatori, ormai assuefatti al divoramento spettacolare dell'orrore. Lo stile del film elimina ogni spettacolarizzazione e ogni estetismo, la regia è controllatissima, costruita attorno a movimenti di macchina essenziali e lunghe inquadrature fisse. Attraverso un uso mistificante del mezzo cinematografico il regista, con perseveranza, lavora per mettere in crisi lo spettatore mostrandogli la parzialità delle sue convinzioni. Haneke rappresenta la violenza in modo enigmatico evitando qualsiasi tipo di interpretazione, contrariamente a quanto è solito fare il cinema commerciale, la cui caratteristica è quella di spiegare, razionalizzare e descrivere il mondo intero, ingannando lo spettatore, convincendolo che ogni problema sia risolvibile. Un genere di cinema che persegue un preciso compito sociale, quello della fabbricazione del consenso. Il regista austriaco si sente in dovere di rendere lo spettatore cosciente, mostrandogli i meccanismi stessi della costruzione del racconto cinematografico, costringendolo ad una presa di distanza, interrompendo qualsiasi forma di identificazione stesse sperimentando. Per far questo, Haneke, decide di rivolgersi direttamente a lui, guardandolo e parlandogli dallo schermo, invitandolo a prendere parte alla vicenda. Attraverso uno dei torturatori, che ammicca con estrema sicurezza alla telecamera, chiama in causa lo spettatore obbligandolo a riconoscersi come interlocutore immediato. Mette in evidenza ciò che viene solitamente nascosto: la macchina da presa e il lavoro da essa compiuto. Opera uno strappo nel tessuto della finzione rivolgendosi all'unico fuori campo che non potrà mai essere trasformato in campo. Compie volutamente l'infrazione di un ordine canonico, un'azione di disturbo, un attentato al normale andamento del racconto cinematografico, che rivela un presupposto taciuto e da tacere. Un tentativo d'invasione d'uno spazio separato.

L'enunciazione, ovvero la messa in atto delle possibilità espressive del cinema per dar corpo e consistenza ad un film, atto linguistico che assicura la produzione di un discorso, solitamente celata, qui si palesa. Il regista, soggetto dell'enunciazione, smascherandosi, attestando la sua presenza, per mezzo del gesto d'interpellazione, costringe anche lo spettatore ad uscire allo scoperto, in quanto destinatario del discorso. I soggetti dell'enunciazione, da realtà solitamente identificabili solo per tracce, in Funny Games diventano pienamente manifesti, veri protagonisti della pellicola. Attraverso quello sguardo in macchina che oltrepassa lo schermo, il film ricorda allo spettatore la sua presenza, il proprio ruolo, anche se nessun controcampo mostrerà mai colui al quale il personaggio si è rivolto. Il film si dà a vedere, si spinge oltre i margini della scena, verso chi si presume debba coglierne le proprie mosse. Il protagonista, sporgendosi verso il fuori campo, cercando di oltrepassare lo schermo, chiama in causa qualcuno che gli è certo di fronte, quel complice sottile che si muove ai margini della scena, ai bordi della rappresentazione. Crea il proprio interlocutore e se ne serve per affermarsi pienamente.

Haneke si conferma così provetto manipolatore del mezzo cinematografico, sovvertitore delle logiche spettacolari. La sua posizione nei riguardi del circuito produttivo e distributivo si fa ancora più radicale ed estrema, un vero e proprio scontro frontale. Il regista non concede nulla al pubblico e alle strategie commerciali, riuscendo abilmente a strumentalizzare l'industria che voleva appropriarsi della sua opera più contestataria.

TITOLO ORIGINALE: Funny Games; REGIA: Michael Haneke; SCENEGGIATURA: Michael Haneke; FOTOGRAFIA: Darius Khondji; MONTAGGIO: Monika Willi; PRODUZIONE: Austria/Francia/Germania/Gran Bretagna/Italia/USA; ANNO: 2007; DURATA: 111 min.

 


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