Sin dal titolo (specialmente quello originale) realizziamo che Mosse vincenti vuol parlare di chi arriva e chi no, di chi trionfa e chi (si) perde, di chi ha una vita piena e chi meno. E infatti, al centro, c’è un avvocato che ha anche una squadra sportiva. Si occupa di un vecchio per soldi, prende suo nipote nella squadra (e in casa) per la sua bravura, ma alla fine gli va male tutto. Eppure non è tanto triste, ci sono cose più importanti nella vita, ad esempio il fatto che gliel’ha fatta vedere alla tossicomane figlia del vecchio, nonché madre del giovane, l’ha rimandata a casa (lei rivoleva entrambi) in cambio dell’assegno. Tutto sommato è un buono.
Esistono film che affrontano temi critici, con aggressività e spiccato senso della polemica, e quelli che, invece, non si fanno troppi problemi, ballando sulla superficie liscia delle cose. Ci sono poi film che realizzano la fusione tra questi due estremi come in una sintesi hegeliana o in una grande opera alchemica: sarebbe a dire commedie abbastanza spensierate che riescono, nondimeno, a suscitare, in maniera più o meno involontaria, un certo fastidio per la mentalità e la cultura che le ha concepite. Ovviamente più che dalla banalità manichea insita nel fatto che l’avvocato sia il buono e la tossicomane la cattiva, siamo turbati da certi dialoghi dove è un tatuaggio o la tinta ai capelli a determinare l’anticonformismo (quello ancora controllabile) del ragazzo. Eppure sono scene piazzate con tale naturalezza che sembrano venire dalla vita di tutti i giorni: in effetti ci chiediamo come vadano le cose nel Nuovo Jersey dov’è ambientato il film, ci chiediamo dove volesse arrivare il regista e sceneggiatore Tom McCarthy (in precedenza anche attore, da non confondere con lo scrittore!), che cosa volesse insegnare soprattutto: il film parla di fratellanza, della sua importanza, ma sembra che questo dono sia riservato ad alcune persone per bene; sembra che il protagonista, indossando (per un po’) la toga, abbia il potere di dare lezioni e risolvere situazioni come fa a volte chi (cambiando cultura) indossa l’abito talare, con la differenza di poter commettere qualche mascalzonata in più ma poter sempre, infine, rientrare nei ranghi nel nome della famiglia (solo la morale condivisa lo riabiliterà dagli errori relativamente condannabili, come nel caso degli altri personaggi).
Se il film risulta in tal modo retorico, forse poco simpatico, non aiutano comunque gli attori, che non sanno reggere la minima virata drammatica, e se la cavano solo in qualcuno dei momenti buffi (resi più buffi dalla loro inespressività); né la fotografia, che non si sente; o il montaggio, che lavora poco e male, essendo il film costruito quasi tutto su dialoghi campo-controcampo, eccezion fatta per qualche sporadico carrello su qualcuno che corre. Tutto sommato non lo si sarebbe detto così vincente, eppure la critica americana pare averlo giudicato favorevolmente e averlo esportato con facilità. Ma è probabile che non ci sia troppo di che stupirsi.
Titolo originale: Win Win; Regia: Thomas McCarthy; Sceneggiatura: Thomas McCarthy, Joe Tiboni; Fotografia: Oliver Bokelberg; Montaggio: Tom McArdle; Scenografia: John Paino, Amanda Carroll; Costumi: Melissa Toth; Musiche: Lyle Workman; Produzione: Fox Searchlight Pictures, Everest Entertainment, Groundswell Productions, Next Wednesday Productions; Distribuzione: 20th Century Fox; Durata: 106 min.; Origine: USA, 2011
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