Gli amori impossibili: Welcome PDF 
Aldo Spiniello   

Calais. Simon è un istruttore di nuoto dai modi sbrigativi, burbero e solitario. È a un passo dal divorzio dalla moglie, Marion, una donna attivamente impegnata nel sociale. La sua vita privata sta andando pian piano a rotoli. Ma a volte ci si aggrappa alle cose più impensabili. Simon si accorge di un ragazzo che, in piscina, s’impegna più degli altri. È un giovane curdo, Bilal, in fuga dall’Iraq e intenzionato a raggiungere la ragazza che ama, Mina, stabilitasi a Londra con i genitori. Per un clandestino è pressoché impossibile attraversare il Canale della Manica e, al porto di Calais, i controlli agli imbarchi sono severissimi. Dopo un tentativo fallito drammaticamente, Bilal comincia a coltivare un’idea folle: attraversare il Canale a nuoto. Per questo prende ad allenarsi in piscina. Simon intuisce le intenzioni del ragazzo, e dapprima tenta di dissuaderlo, poi si appassiona alla sua storia e cerca di aiutarlo come può, finendo per mettersi anche nei guai con la legge.

È, in breve, la storia di Welcome, l’ultimo film di Philippe Lioret (Mademoiselle, Je vai bien, ne t’en fai pas), caso dell’anno in Francia, presentato al Festival di Berlino e poi, in anteprima italiana, al Torino Film Festival nella sezione Festa mobile. Sceneggiato dallo stesso Lioret, con la collaborazione di Emmanuel Courcol e Olivier Adam, il film punta l’indice contro la legge sull’immigrazione clandestina fortemente voluta da Sarkozy e denuncia il deprimente clima di intolleranza razziale che si respira in Francia. L’apparenza, dunque, è quella di un cinema militante che interviene sulla realtà e prende posizione sul presente. Welcome attacca le storture di una società che, sotto la parvenza democratica e "aperta", cova l’odio, e si schiera contro le ipocrisie di una classe dirigente che, nascosta dietro la bandiera della sicurezza, eleva la discriminazione a sistema. Sotto lo sguardo severo e implacabile della macchina da presa, si materializzano i segni di un razzismo quotidiano, diffuso e strisciante: dal commesso di un supermercato che vuole cacciare uno straniero al vicino di casa di Simone che non si trattiene né dalla menzogna né dalla delazione. E in questo senso il film di Lioret riesce a cogliere, con naturalezza, un nodo centrale e restituisce con precisione una realtà fondamentale: le scelte della politica non hanno alcun valore se non si traducono in una pratica individuale e concreta, che ne sia la causa e il riflesso. In altri termini, non avrebbe alcun senso una legge che punisce la clandestinità se non vi fosse nessuno disposto a denunciare i clandestini. Si tratta probabilmente di una constatazione ovvia, ma che coglie perfettamente il baratro di una società occidentale ormai sprofondata in una crisi etica, ancor prima che morale.

E Lioret fa emergere la riflessione con rapidissimi tratti, quasi delle note a margine che si incuneano nella storia e delineano il quadro generale nel quale si muovono i suoi personaggi. Certo, proprio queste note conducono il film sul pericoloso crinale degli stereotipi. Tanto che parte della critica francese (i Cahiers ad esempio) non ha mancato di sottolineare l’eccessivo manicheismo di Welcome, fino a rintracciare le colpe "originarie" di certo cinema di denuncia. Lioret come Loach, verrebbe da dire. Eppure, a ben guardare, qualcosa salva il film dal peccato di un eccessivo schematismo. Sarà l’aria di Calais, per sua natura luogo di frontiera, proteso verso l’orizzonte di un altro mondo e di un’altra vita. Lo sguardo teso di Lioret esplora i fantasmi notturni, minacciosi del porto, letteralmente invaso dalla polizia. E poco dopo scopre la meraviglia della spiaggia battuta dal vento e dalle onde gelide del mare. La paura e il desiderio. Il terrore del passato e il sogno del futuro. I luoghi, mai asettici, racchiudono e custodiscono le emozioni, il vissuto e le speranze degli uomini. Vibrano al loro passaggio, ricevono e restituiscono calore. È in questa sfera emotiva che Welcome trova la sua magica intensità. In questa capacità di esplorare la contemporaneità dal punto di vista del cuore e dei sentimenti. Lioret, prima ancora che alle relazioni sociali, guarda al microscopio l’universo cellulare dei legami personali. E ne segue, con amore, il corso sempre incerto e contraddittorio. Il suo cinema assomiglia a quello di Laurent Cantet. È politico nella misura in cui è esistenziale. Scava nelle nostre anime, nelle nostre inquiete solitudini e insoddisfazioni, nella nostra condanna ad occupare il tempo secondo il ritmo forsennato del mondo. E raccontando la nostra vita, racconta un mondo intero.

Davanti ai nostri occhi il rapporto tra Simon e Bilal cresce e si modifica come un qualsiasi organismo vivente. Dal principio sono due estranei. Bilal è l’alieno, caduto dal nulla. Viene da un’altra storia, che si interseca a quella di Simon, modificandone, come sempre accade, la direzione e la prospettiva. Poi, a poco a poco, il legame si rinsalda e i due assomigliano sempre più a un padre e a un figlio. Ma un’altra variabile interviene a scompaginare le carte e a ridefinire i ruoli. Quando Simon scopre le motivazioni che spingono Bilal a raggiungere l’Inghilterra, qualcosa cambia. Ed è come se nell’amore del ragazzo per Mina rivedesse il suo (perduto) amore per Marion. Le differenze (razziali, caratteriali, di età) tendono sempre più a svanire, fino ad annullarsi in un’identificazione che non può che avvenire in nome dell’amore, di uno slancio universale che fa saltare muri e barriere, leggi, abitudini, cattive coscienze. Sotto la sua apparenza "interventista", Welcome è in realtà una storia struggente di amori impossibili, di sogni di felicità destinati, letteralmente, a naufragare. Una sorta di melodramma trattenuto fuori campo, ma che comunque cresce con intensità implacabile. Fino ad esplodere verso il finale, quando Lioret, con un colpo d’ali, annulla il realismo del quadro, per involarsi in uno slancio lirico e fantastico: il mare inquadrato dall’alto e lì, in mezzo, un piccolo ragazzo che insegue il proprio desiderio al punto tale da accettare l’inevitabile. Non c’è scampo. Si chiude su un’immagine di rimpianto e solitudine, sul volto trasognato e amaro di Vincent Lindon. Ed è lui il vero cuore doloroso del film, la sua voce roca, la sua capacità di caricare il minimo gesto di tutta una vita e tutto un passato. Come Gabin, come Ventura… un uomo già sconfitto in partenza, eppur mai domo.

Nonostante i dubbi di certa critica francese (Les Inrockuptibles), è la sua interpretazione il sussulto più emozionante del film, la sua sottile ambiguità nel disegnare il personaggio. Restiamo con il dubbio che Simon abbia aiutato Bilal più per recuperare il rapporto con la moglie che per uno slancio di altruismo disinteressato. Ma in fondo non conta. Forse avremmo fatto altrettanto. È l’ultima verità con cui ci tocca fare i conti, finito il film. Il buio sullo schermo ci lascia più soli. Definitivamente.

 


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