James Cameron: nuove sfide per nuovi spettatori PDF 
Umberto Ledda   

Che Avatar sia un film epocale è ovvio. Non è il primo film che ha portato nelle sale la tridimensionalità, ma a) ha sviluppato, in parte, i sistemi stessi che l'avrebbero resa possibile, b) ha di fatto portato il 3D alla maturazione, vale a dire che mentre lo guardi non ti viene da ridere e che dopo un po' puoi dimenticartene, e percepirlo senza necessariamente notarlo. In altre parole, in Avatar il 3D acquisisce la possibilità di diventare contestuale e non più solamente una pura attrazione bastante a sé stessa: quello di Cameron non è probabilmente quel che si definisce un film d'autore, ma apre la strada alla possibilità di sfruttare il 3D in un senso coerentemente autoriale. E sia detto per inciso, il 3D rappresenta per la rappresentazione visiva un passo in avanti superiore a quello che fu il sonoro, e sicuramente è superiore all'invenzione del technicolor. Potrebbe essere uno di quei cambiamenti che da soli rendono obsoleto (e malinconico, e lontano) ciò che c'era prima: Avatar rappresenterebbe in questo caso una pietra tombale a centoquindici anni di storia del cinema, e aprire una nuova era e una nuova visione. Una nuova percezione delle storie: una nuova possibilità, spostando il discorso sui massimi sistemi, per realizzare il desiderio degli uomini di poter credere a ciò che non esiste. È molto probabile che sia così, perché aldilà della rutilante magniloquenza che Cameron ha come cifra personale, il 3D rappresenta la risposta a esigenze più profonde, che inconsciamente gli spettatori e i fruitori di storie aspettavano dall'inizio del tempo, e che ora la tecnologia può, realmente, offrire.

3D a parte, sono, più o meno, le stesse cose che si dicono ogni volta che esce un nuovo lavoro di James Cameron. Sinceramente, nel 1991, pochi immaginavano che gli effetti speciali (la creazione dell'impossibile attraverso il trionfo dell'intelletto, quanto di più simile ci sia alla demiurgia) avrebbero potuto ancora progredire dopo il balzo in avanti che Terminator 2 aveva impresso loro. Dopo il mostruoso esercizio produttivo di ricostruzione filologica di Titanic, nessuno pensava che un tale sforzo di verosimiglianza e arroganza del sogno potesse essere superato. È anche vero, comunque, che a guardare oggi il cyborg cattivo  di Terminator che si scompone rozzamente in una sorta di bolo argentato suscita qualcosa che sta fra il divertimento ingenuo e l'imbarazzo. E che molti film hanno osato di più, in termini di sforzo produttivo nella ricostruzione fisica di un universo fittizio, di Titanic. Il che significa forse che non bisogna sopravvalutare troppo Avatar; nello stesso tempo, che negli ultimi vent'anni Cameron è stato il solo regista capace di modificare con convinzione i confini di ciò che comunemente viene chiamato cinema; e tramite il cinema, i confini di ciò che comunemente viene chiamato sognare.

Cameron, paradossalmente, ha poco del regista comunemente inteso, se per regista si intende colui che insegue e cattura le sfumature dei suoi stessi sogni e delle sue stesse chimere e le offre a un pubblico compiacente. Non sembra uomo di sogni; il suo cinema è un cinema d'azione, azione non nel senso (o non solo nel senso) che mette in scena film movimentati e in cui succede molto, ma perché concepisce il fare cinema, più ancora che i film, come una sfida fisica prima che mentale. È noto il suo stile dittatoriale e oltranzista, di professionista che obbliga la troupe a sforzi disumani e certamente implausibili, ma senza mai ordinare a nessuno di fare qualcosa che anche egli non sia pronto a fare. I suoi film sono sfide all'impossibile, che sia produttivo, economico, tecnologico. Cameron è, e sicuramente vuole essere inteso, un regista che fa film che non potrebbero, e non dovrebbero, essere fatti. Girare The Abyss era inverosimile: film sottomarino girato quasi interamente sott'acqua – una delle grandi ossessioni di Cameron –, metteva a repentaglio la sicurezza di attori e maestranze e richiese tempi inaccettabili anche solo per far passare la troupe in camere di decompressione per ogni ripresa. Titanic prevedeva la ricostruzione totale di una delle più grandi navi della storia: non solo, prevedeva il suo affondamento, e senza effettucci speciali da quattro soldi. Non poteva funzionare. Avatar è un megacolossal dove meno della metà delle riprese è girata dal vero (curioso, per un film che è contenutisticamente una difesa delle origini e del rapporto con la natura e la semplicità, e questo è un punto da cui si può intuire molto su Cameron); ideato per il 3D quando ancora il 3D era di là da venire, e scritto, e progettato, quando ancora non si credeva possibile realizzarlo.

Cameron gira sfide potenzialmente letali, attacchi al buon senso e allo standard economico, alla sua incolumità e a quella altrui: per ora, ha sempre avuto ragione. Non è un intellettuale né un artista, e poco di lui, in effetti, è in comune con l'uomo di cinema. Non è, se non per puro caso, un narratore di storie: le sue strutture narrative non sono niente di che. Terminator era un pastrocchio tradizionale di strutture fantascientifiche e pulsioni cyberpunk, The Abyss immaginava, come sarebbe poi stato con Avatar, civiltà sconosciute e minacciate dall'uomo, ma non si sollevava, da un punto di vista squisitamente poetico, da una certa retorica non troppo distante dal luogo comune. Terminator 2 aggiungeva una nota semicomica e una lacrimevole al personaggio dei cyborg, entrambe stereotipate; Titanic era una tradizionale storia d'amore con tragedia annessa fra uno scipito bello-e-dannato-e-proletario e una bella borghese. Avatar è una tradizionale storia con gli indiani buoni come se ne fanno negli Stati Uniti dagli anni Settanta, con l'unica invenzione, sul piano narrativo, che gli indiani sono blu, hanno la coda e vivono su un altro pianeta. Cameron non è un narratore: la prova del nove è che uno si mette a guardare i suoi film e dopo venti minuti la scena finale gli è già chiara di fronte agli occhi. Non contano in lui l'intelligenza e l'innovazione degli snodi narrativi, non conta la sorpresa, non conta la capacità di sorprendere lo spettatore con svolte impreventivabili, o con la sottigliezza delle situazioni o dei personaggi. Non innova ciò per cui il cinema è nato – le storie, le emozioni, i sogni, il linguaggio –, innova la macchina stessa del cinema. Cameron è uno scienziato e un architetto della narrazione. Come tale, non offre uno spettacolo nuovo, ma offre uno spettacolo perfetto. Mette delle storie solo perché qualcosa bisogna pur avere per farci i film: ma se dovessimo guardare solo a quelle, pochi registi sarebbero più dimenticabili più di lui. Lavora come il gestore di un luna park, ma molto meglio: perché alla fine, uscendo da Titanic, la gente piangeva la morte di di Caprio, piangeva per la storia, perché quel che c'era intorno era in grado di buttarlo dentro alla storia come niente aveva mai fatto. Ne sarebbe andata bene una qualsiasi.

Cameron non è uomo d'arte, ma uomo di mercato. Versione decuplicata dell'imbonitore geniale di spettacolini di magia, cerca metodi nuovi per sopperire a lacune vecchie e per offrire lo spettacolo perfetto. Da uomo di mercato, asseconda il pubblico: crea ciò di cui il pubblico ha bisogno piuttosto che provare a istruirlo, guidarlo, sconvolgerlo o mettergli in testa dei dubbi. Cameron non è diverso, in questo, dal più mediocre mestierante. Ciò che lo rende grande è la capacità di offrire al pubblico ciò che desidera, ma che non sa ancora di desiderare, perchè ancora non crede che sia possibile desiderarlo. Il pubblico vuole una realtà perfetta che sostituisca la realtà effettiva. È così da sempre, ma con il cinema, e con Cameron, questo può avvicinarsi alla perfezione. Un tempo, per sognare, gli uomini dovevano compiere uno sforzo non indifferente, sia che sognassero per conto loro, sia che i sogni gli venissero offerti sotto forma di religioni o storie o ideali o quant'altro. Nell'ultimo secolo il lavoro che un uomo deve svolgere per poter sognare, e abitare il sogno (vale a dire smettere di chiedersi se è verosimile crederci), si è fatto estremamente più limitato. Il cinema è nato dando un volto a ciò che non esisteva, o ciò che non si aveva a disposizione. La voce e il colore sono arrivati man mano, e hanno reso più verosimile la questione. L'avvento della tecnologia digitale ha segnato un balzo forse meno percepibile, ma certamente più importante. Se molto del fascino del cinema (di un certo tipo di cinema almeno, quello di spettacolo) deriva dalla possibilità di offrire con verosimiglianza azioni e situazioni che lo spettatore con ogni probabilità non avrà occasione di vivere, offrendogli su un piatto d'argento le possibilità di un temporaneo transfert liberatorio, l'avvento del digitale ha reso finalmente totale questa possibilità: la possibilità di mostrare ciò che non può esistere, senza che lo scarto di verosimiglianza fosse tale da gettare tutto nel ridicolo. Ora Cameron ha di fatto inventato, contribuendo a sviluppare il sistema in tre dimensioni, il metodo perché questi sogni non rimangano altro dallo spettatore, ma che egli possa percepirli non come sogni, ma finalmente come realtà. È la realtà virtuale di cui si parlava negli anni Ottanta. Lo scopo del 3D, la pulsione inconscia di cui è la risposta, è quello di far sì che lo spettatore percepisca il suo corpo, e non solo più la mente, all'interno del sogno. Il superamento di un'altissima staccionata ontologica; per molti aspetti, un punto di non ritorno.

Avatar non è poi molto diverso dai lavori precedenti di Cameron, e non solo per la prevalenza dell'aspetto produttivo su quello narrativo. A unirli è soprattutto l'attenzione al senso di realtà che sono capaci di suscitare. Terminator 2 era il primo film che, nella percezione dell'epoca, permetteva allo spettatore di credere davvero e senza tanti sforzi alle incredibili avventure raccontate, di fatto abbattendo in gran parte le difficoltà della willing suspension of disbelief. Metodo diverso, ma identico concetto, per Titanic: costruire una nave in scala uno a uno, e pubblicizzarlo come uno dei punti forti del film, era un modo per sgretolare la distinzione fra il falso e il reale: rendere confortevole l'inesistente, per dare la maggior sensazione possibile di verosimiglianza. È la pulizia, la totale assenza di rumori di fondo e di disturbi per lo spettatore, che rende grande Titanic, e non la grandezza pura e semplice. La magniloquenza produttiva è solo l'unico metodo possibile per realizzare la totale verosimiglianza. E lo stesso accade per Avatar: la magia visiva è scontata, ma è la sensazione di naturalezza a fare sì che il pubblico non percepisca la meraviglia come un mero strumento da luna park, e si immedesimi quindi nella storia. La grandezza, in Avatar, lo stupore, sono solo necessarie sottolineature. Sono strumenti pubblicitari, ma la grandezza del 3D, e Cameron lo sa, non sta nella pura esposizione del trucco tecnologico: la tridimensionalità, dopo di lui, entrerà a far parte del mondo del cinema come una forma della verosimiglianza, e non della meraviglia.

Cameron disegna una nuova immagine di spettatore, uno spettatore senza responsabilità se non quella di diventare parte stessa del film, in abbandono totale, e totale disconnessione con la realtà esterna. Non esiste altro se non il film, quando si guarda Cameron: il suo progetto mette una toppa a tutte quelle feritoie in cui, nel cinema che lo precede, il mondo reale si infiltrava, sporcando l'immedesimazione. Gli incassi di Avatar e di Titanic, così come lo strano e inquietante fenomeno degli spettatori ambosessi che si precipitarono a vedere Titanic più e più volte (e, conviene ripeterlo, come storia d'amore non era la migliore né la più originale né la più colma di pathos che fosse stata messa a disposizione dalla cinematografia mondiale), non possono essere spiegati soltanto con il marketing e tantomeno con la stupidità dello spettatore medio, non possono essere spiegati solo con la magniloquenza. Cameron ottiene qualcosa di più del successo. Guardare i suoi film è il sogno perfetto, perché non si distacca praticamente dalla percezione della realtà: dopo pochi minuti, cessa di porsi come tale (come finzione, con tutti i sensi di colpa del caso) e nello stesso tempo è studiato secondo i dettami hollywoodiani, con tutti gli snodi al posto giusto, i climax che salgono secondo raffinati calcoli di ingegneria emotiva. Nulla di esterno esiste, lo spettatore può esistere attivamente nel film, ma come si dorme, in un altro pianeta, liberato finalmente e completamente dal peso dell'esistenza reale.

 


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