Il Cinema Ritrovato PDF 
Francesca Druidi   

Una folla oceanica (circa diecimila persone in base alle stime ufficiali) assiepata sul Crescentone bolognese e in ogni angolo accessibile di Piazza Maggiore. Una folla da “notti magiche” dei mondiali di calcio, ma che questa volta si è riunita per assistere alla versione restaurata de Il Gattopardo, che ha inaugurato nel migliore dei modi la ventiquattresima edizione de Il Cinema Ritrovato, svoltasi dal 26 giugno al 3 luglio nel capoluogo emiliano, proponendo in otto giorni 313 film ad un pubblico composto da oltre mille accreditati provenienti da 42 paesi diversi. Più che un festival, una “macchina del tempo” che ha permesso agli spettatori di rivivere, oppure di vivere per la prima volta sul grande schermo l’emozione di pellicole che appartengono al nostro passato cinematografico, apprezzandone così ancora la modernità, la capacità di influenzare registi e correnti e di farsi penetrante testimonianza del periodo storico e artistico nel quale sono state girate.

Quanto mai appropriata è stata, quindi, la proiezione del capolavoro diretto da Luchino Visconti, presentato all’ultimo festival di Cannes, il cui restauro è stato possibile grazie al sostegno di Gucci e della Film Foundation di Martin Scorsese, realizzato in partnership da Cineteca di Bologna – L’Immagine Ritrovata, Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale, The Film Foundation, Pathé, Fondazione Jérôme Seudioux-Pathé e Twentieth Century Fox. Il film del 1963, celeberrimo adattamento dell’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, fu girato in Technirama, un sistema nel quale le immagini vengono impressionate su pellicola 35mm in senso orizzontale, distinguendosi dal tradizionale negativo cinematografico che scorre verticalmente. “L’utilizzo di questo sistema di ripresa permetteva a Visconti di avere fotogrammi più grandi con una notevole definizione, oltre ad una straordinaria precisione e cura dei dettagli”, ha avuto modo di dichiarare Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna. “Il restauro è stato particolarmente impegnativo. Abbiamo ritrovato il materiale originale, lo abbiamo scansionato alla più alta definizione possibile, ottenendo una precisione in termini di luminosità, di resa delle ombre, dei chiaroscuri e dei colori che non ha niente a che vedere con quella a cui eravamo abituati, probabilmente anche molto superiore a quella che lo stesso Visconti poté vedere. Una qualità già insita nella pellicola, ma che le tecnologie precedenti non lasciavano emergere completamente. Del resto, se il film era stato girato in quel formato era proprio perché Visconti desiderava che l’immagine risultasse quasi tridimensionale”. Dopo la scansione, tutti i file sono stati convertiti a 4k e il restauro interamente digitale è stato eseguito a questa risoluzione. Il Gattopardo, dedito a rappresentare un mondo costretto giocoforza ad affrontare lo spettro del cambiamento, sia di natura sociale che politica, è un’opera in cui anche il minimo dettaglio è stato accuratamente studiato e ricercato (fiori freschi spediti ogni giorno da Sanremo, candele vere sostituite ogni ora, porcellane prestate dalle famiglie nobili palermitane).

Martin Scorsese, che ha fortemente promosso l’iniziativa, lo definisce come “un arazzo cinematografico in cui ogni gesto, ogni parola, la disposizione di ogni oggetto in ciascuna stanza richiama in vita un mondo perduto”. Il restauro rende ancora più giustizia al lavoro compiuto dal cineasta nel ricostruire le atmosfere dell’Ottocento e della Sicilia in particolare: “il calore, la polvere, gli odori, quel mondo che magicamente Visconti riporta in scena per l’ultima volta”, prosegue Gian Luca Farinelli. “Si riassapora il valore tattile e olfattivo dell’opera, percependo le differenze di luce, poiché ogni sequenza è stata girata in una particolare ora del giorno e della notte. Il leitmotiv del tempo della giornata, che poi è il tempo della storia, fino ad oggi non era realmente visibile, mentre ora risulta tangibile. Si tratta, quindi, di un restauro formidabile che speriamo consenta al film di vivere una nuova vita e una nuova uscita nelle sale perché, oltre ad essere un lungometraggio bellissimo, è una pellicola che parla della storia d’Italia, delle radici di un popolo”.

Un nuovo senso
Martin Scorsese, nome tutelare del Cinema Ritrovato in virtù della collaborazione tra la sua The Film Foundation e la Cineteca bolognese, dopo Scarpette rosse dell’anno scorso, è promotore anche del restauro di Senso (1954), sempre diretto da Luchino Visconti e inserito in questa edizione del festival. Alla fine del 2008 il cineasta di Taxi Driver e The Departed ha, infatti, affidato alla Cineteca il compito di far rivivere il Technicolor splendente del lungometraggio, che emerge in dettagli come i fiori gettati in platea dai palchi all’inizio del film e l’oro e il candore delle divise asburgiche. L’amore cieco e a senso unico della contessa Livia Serpieri (Alida Valli), moglie di un aristocratico filoaustriaco nella Venezia del 1866, per il giovane ufficiale austriaco Franz Mahler (Farley Granger), doppiogiochista ingannevole che sfrutta a suo vantaggio la passione della donna, condurrà la protagonista a donargli i soldi destinati ai patrioti italiani alla vigilia della battaglia di Custoza, che avrebbe dovuto essere il vero titolo della pellicola secondo Visconti, il quale si ispirò a La certosa di Parma di Stendhal. Un’opera sublime, Senso, nella quale convivono in modo armonioso anche le fotografie di G.R. Aldo, morto durante le riprese, e di Robert Krasker, che l’ha sostituito, fino al contributo di Giuseppe Rotunno nella sequenza della fucilazione di Mahler. Tra gli altri capolavori che hanno incantato la platea della piazza cittadina nelle diverse serate del festival si ricordano, inoltre, la nuova versione di Metropolis di Fritz Lang, con le sequenze ritrovate due anni fa e oggi restaurate, l’avveniristico appuntamento dedicato ai fratelli Lumière, e poi Boudu salvato dalle acque di Jean Renoir, I tre birbanti di John Ford, La regina d’Africa di John Huston, 317 battaglione d'assalto di Pierre Schoendoerffer e Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen.

Cantando ad Hollywood, incontro con Stanley Donen
Ospite del festival è stato proprio il grande regista americano, oggi ottantaseienne, uno dei massimi artefici del musical hollywoodiano, che però non si è tirato indietro di fronte agli stimoli provenienti dal cinema e dalla cultura degli anni Sessanta, girando pellicole connotate da una cifra sempre e comunque personale. Film brillanti, eleganti ma al contempo freschi e leggeri, come dimostrano commedie quali Sciarada (1963) e soprattutto Due per la strada (1967), dove la sfida per il cineasta è stata quella di realizzare un film su una coppia sposata da dodici anni, un racconto matrimoniale, quindi, che non fosse però ripreso nel tradizionale ambiente domestico. Un progetto che, come ha avuto modo di raccontare lo stesso Donen in occasione della proiezione della pellicola, gli studios americani non avevano preso in considerazione fino a quando l’immensa Audrey Hepburn non accettò la parte della protagonista. L’attrice torna anche in Cenerentola a Parigi (1957), dove interpreta Jo Stockton, integerrima libraia intellettuale del Village che, dopo aver incontrato il fotografo di moda Dick Avery (incarnato da Fred Astaire in un ruolo che guarda a Richard Avedon), decide di diventare modella e testimonial della rivista patinata Quality per avere l’opportunità di andare a Parigi e conoscere così il suo guru, il professor Floste, principale sostenitore di una corrente filosofica chiamata empaticalismo (evidente satira dell’esistenzialismo). Il film mostra in modo emblematico una delle caratteristiche fondative del musical classico hollywoodiano, ossia una struttura dualistica sotto il profilo della narrazione, una struttura bifocale che si concentra sulle vicende di due personaggi di sesso opposto, un uomo e una donna contraddistinti da due divergenti sistemi di valori: da una parte la Jo della Hepburn, che bandisce ogni frivolezza in nome dell’empaticalismo e, dall’altra, il fotografo Dick che si gode quanto di buono gli offre il suo mestiere. Saranno la sua apertura mentale e la sua inventiva a consentirgli di individuare con facilità la bellezza e il talento espressivo della donna, celati dietro la sua ritrosia nei confronti della moda. Naturalmente, l’obiettivo dichiarato è la formazione della coppia. E il tutto avviene a Parigi, attraverso numeri musicali che hanno fatto la storia di questo genere cinematografico, come Bonjour, Paris!, la danza di una Audrey Hepburn vestita completamente di nero nell’atmosfera notturna di una cave parigina, e He loves and she loves, con l’ironia offerta dal personaggio della caustica fashion editor interpretata da Kay Thompson, che non si discosta poi molto dalla Miranda di Meryl Streep ne Il diavolo veste Prada. Sul maxi schermo ha poi scintillato nuovamente Singin’ in the Rain (1952), co-direzione di Stanley Donen e Gene Kelly dopo Un giorno a New York, frutto di una formidabile coppia di sceneggiatori come Betty Comden e Adolph Green e di un produttore di straordinario talento come Arthur Freed, compositore e paroliere, responsabile nell’arco di vent’anni alla MGM di alcuni dei più famosi e grandiosi musical, tra cui Un americano a Parigi (1951) e Spettacolo di varietà (1953) di Vincent Minnelli. Cantando sotto la pioggia esemplifica alla perfezione la tendenza metalinguistica che il musical esibisce negli anni Cinquanta in maniera più evidente rispetto al passato, rendendo lo spettacolo oggetto di un’esplicita riflessione riguardante le sue caratteristiche strutturali e il processo di funzionamento del genere stesso. La storia del passaggio dal cinema muto al sonoro è vista attraverso le vicende personali e professionali di due star del muto, Don Lockwood (Gene Kelly) e la vanitosa Lina Lamont (Jean Hagen), costretti a fare i conti con la nuova tecnologia mentre stanno girando The Dueling Chevalier: mentre Don – esperto ballerino e cantante – non avrà problemi ad adattarsi, Lina Lamont dovrà ovviare alla sua voce sgradevole e fastidiosa, aprendo le porte del successo alla sua doppiatrice, l’incantevole Kathy Selden (Debbie Reynolds), che avrà l’idea di trasformare il melodramma iniziale in un vero e proprio musical, The Dancing Chevalier appunto. Celando l’irruzione della televisione dietro la metafora dell’avvento del sonoro, Cantando sotto la pioggia si configura come una ricognizione della storia del musical che non si limita a pescare nel gran mare del musical classico, ma lo ricrea e lo ripropone con inimitabile dinamismo ed energia.

Il primo John Ford
Un anno dopo Frank Capra, il Cinema Ritrovato torna a scandagliare la produzione primordiale di uno dei giganti del cinema americano, John Ford, con l’integrale della filmografia muta e i rari sonori dei primi anni Trenta, fino al capolavoro Pilgrimage del 1933. Pellicole che aprono scorci, passaggi, lati inediti del cineasta, dando il là a connessioni ardite con i capolavori della maturità. Tra le opere presentate, Arrowsmith, del 1931, tratto dall’omonimo romanzo di Sinclair Lewis premiato con il Pulitzer adattato da Sidney Howard, particolarmente caro al regista per il tema rappresentato: un medico ricercatore, Martin Arrowsmith, è costantemente scisso tra il richiamo esercitato dalla professione e il suo ruolo di marito non proprio attento ai bisogni della moglie, che di fatto sacrificherà in nome dei suoi ideali. E poi Up the river (1930), commedia dell’assurdo ambientata in un penitenziario del Midwest, dove si incontrano i protagonisti: il criminale un po’ sbruffone ma leale St. Louis, uno Spencer Tracy al debutto sullo schermo; il “nobile” Steve (un Humphrey Bogart la cui recitazione al suo secondo lavoro è ancora un po’ trattenuta), giovane di buona famiglia che non ha il coraggio di confessare alla madre di essere stato arrestato; e l’ottuso ma divertente Dannemora Dan (Warren Hymer), spalla comica involontaria di St. Louis. Steve si innamora di una delle carcerate, Judy (Clare Luce), ma una volta tornato a casa, scontata la pena, viene ricattato dall’ex fidanzato della giovane, un imbroglione falsario che conosce la verità sul suo passato e sulla nuova fidanzata. Il film risulta in definitiva un’inedita quanto piacevole satira del genere carcerario a stelle e strisce. Le condizioni di vita all’interno della prigione sono, infatti, quanto mai lontane da suggestioni drammatiche o di denuncia, quelle insomma che ci potremmo aspettare da un film sul tema: basti pensare che St. Louis e il suo degno compare evadono giusto in tempo per aiutare Steve a levarsi dagli impicci e tornare con placidità dietro le sbarre per giocare un’importantissima partita di baseball nell’ambito del torneo tra carceri. Meglio una comunità solidale, seppur in gattabuia, piuttosto che l’ipocrisia e il doppiogiochismo che si respirano nella società “normale”, sembra suggerirci John Ford. Un lavoro su commissione, ma dagli esiti altrettanto divertenti, è The Brat (La trovatella, 1931), basato su un’opera teatrale di Mauld Fulton. Un romanziere dell’upper class newyorchese, McMillan Forester, accoglie nella propria casa una trovatella che ha rischiato il carcere per non aver pagato il conto in un ristorante e decide di farne la musa del suo nuovo lavoro, ispirandosi alla sua storia per tratteggiare l’eroina protagonista. Le conseguenze della permanenza in casa Forester della ragazza non si faranno attendere. La storia rievoca il Pigmalione di George Bernard Show, ma il tono è più farsesco e il ritmo decisamente agile, con una recitazione sovraccarica ma convincente, soprattutto da parte dei caratteristi.

Alla ricerca del colore nei film
Introdotta la scorsa edizione, questa sezione del festival prende in rassegna le modalità di colorazione dei film muti fino a presentare alcuni degli esiti più sorprendenti dell’uso del colore nelle pellicole sonore. Il Gattopardo e Senso appartengono, non a caso, a questo programma, insieme a due pellicole davvero straordinarie come Johnny Guitar di Nicholas Ray (1954) e Picnic di Joshua Logan (1955). Per quanto riguarda il primo titolo, definito dallo studioso Franco La Polla alla stregua di “un’opera lirica”, si tratta di uno dei lungometraggi più amati e analizzati di sempre, in grado di spiazzare ogni volta lo spettatore in virtù della potenza trascinante della sua storia, un melodramma bruciante di passione, odio e ossessione, ma soprattutto della sovradeterminazione semantica dei colori ottenuta anche grazie all’essenziale contributo del direttore della fotografia Harry Stradling. Il valore simbolico assunto dai colori – insieme alla costruzione di spazi e ambienti – va infatti a connotare i personaggi in modo particolarmente significativo: dalla Vienna insuperabile di Joan Crawford, proprietaria di saloon, che non cede di un passo dal suo proposito di arricchirsi tramite il passaggio della ferrovia nonostante tutto il paese le sia contro, alla sua acerrima rivale Emma (Mercedes McCambridge), gelosa dell’infatuazione che il capo banda Dancing Kid prova per la protagonista; da Johnny Logan Guitar (Sterling Hayden), pistolero ex amante di Vienna, al mellifluo Bart Lonergan di Ernest Borgnine. Risplende nella sua potenza visiva anche il Cinemascope di Picnic di Joshua Logan, il cui script firmato da Daniel Taradash si mantiene debitore della piéce di William Inge. Melodramma corale che scandaglia tra le crepe e i vizi della borghesia di una piccola comunità del Kansas, esaltato dalla fotografia di James Wong Howe, il film si apre con l’arrivo in città di Hal Carter (William Holden), tanto affascinante quanto scapestrato, che spera di trovare fortuna, lavoro e un po’ di stabilità rispolverando l’amicizia con il ricco ex compagno di college, interpretato da Cliff Robertson, al quale finirà però per rubare la fidanzata, la bella Madge Owens, che ha il volto e le forme di Kim Novak.

Ritrovati e Restaurati
In un festival ricchissimo di proposte (omaggi a Caruso e Robert Florey, il progetto Napoli/Italia e il cinema dell’emigrazione, la sezione intitolata “Anni difficili” e curata da Goffredo Fofi, che ha avuto come oggetto il cinema degli anni 1945-48 operando una sorta di resoconto parallelo tra il panorama italiano e quello europeo) non è mancata la sezione consacrata alle diverse opere restaurate. Tra queste, Youth Runs Wild di Mark Robson (1944), sceneggiato da John Fante, maldestro tentativo di raccontare il disagio sociale delle giovani generazioni americane durante il periodo bellico, appesantito da un approccio eccessivamente didascalico, e la versione britannica di Night and the City (I trafficanti della notte) di Jules Dassin (1950), noir memorabile dove assistiamo al vano tentativo di ascesa e alla fatale, drammatica, caduta di un perdente, Harry Fabian (Richard Widmark), piccolo delinquente dalla lingua sciolta che naviga ai margini dei boss che contano in una Londra dei sobborghi che non lascia scampo, fotografata da Max Greene come una metropoli cupa e violenta, labirintica e claustrofobica, nella migliore tradizione dello stile estetico del noir. Nella sua corsa al riscatto Fabian proverà a coinvolgere una vecchia gloria della lotta greco-romana nell’organizzazione di una serie di incontri, ingannando chiunque gli stia a tiro, compresa la fidanzata Mary. La sua ambizione si scontrerà con l’impossibilità di scardinare i meccanismi del potere locale, di ribaltare una situazione che lui stesso ha contribuito a creare intorno a sé, ma soprattutto i voleri del destino.

Fellini. Dall’Italia alla luna
Il titolo di questa sezione rimanda all’omonima mostra allestita fino al 25 luglio al MAMbo, il Museo d’Arte Moderna di Bologna, curata da Sam Stourdzé, già responsabile nel 2007 della straordinaria esposizione dedicata a Charlie Chaplin. La mostra si inserisce nel più ampio progetto di coproduzione tra il MAMbo e la Cineteca di Bologna, che ripercorre la quarantennale carriera cinematografica di Federico Fellini attraverso l’allestimento museale e una retrospettiva che si è tenuta negli scorsi mesi nelle sale della Cineteca e che prosegue al Cinema Ritrovato per terminare in luglio con il programma estivo proposto sempre in Piazza Maggiore. Nel cartellone del festival sono rientrate le scene ritrovate di Lo Sceicco Bianco, la proiezione della versione integrale di Roma e il Dossier Fellini, con la presentazione  del progetto finora inedito cui stava lavorando Fellini con Bernardino Zapponi. Con un approccio strettamente multimediale, nel quale si susseguono in un rapporto dialettico immagini fisse e immagini in movimento – estratti di film (30 postazioni audio-video di cui 12 videoproiezioni), disegni autografi (50 pezzi), documenti fotografici (200 scatti), resoconti giornalistici, immagini televisive, disegni, centinaia di documenti e materiali legati al lavoro del cineasta riminese –, Fellini. Dall’Italia alla luna scardina i legami di un’analisi esclusivamente cronologica e filmica per ricostruire e delineare la visione del mondo del maestro, dalla quale deriva il suo modo di fare cinema. Di fare film. Si tratta di un viaggio affascinante volto a scoprire gli elementi costitutivi del suo background personale, sociale e culturale, riflessi poi nella sua opera. “Cultura popolare”, “Fellini al lavoro”, “La città delle donne” e “Invenzione biografica” sono le principali aree tematiche del percorso espositivo, capaci di condensare ossessioni personali e modalità di rappresentazione cinematografica, svelando i leitmotiv che hanno dato forma al lavoro del Fellini regista e che hanno affascinato il Fellini uomo: il circo; le caricature, che hanno costituito il suo esordio professionale; i fotoromanzi; le donne, dalla star Anita Ekberg alla compagna di una vita Giulietta Masina fino alle tipologie di donne formose e procaci ritratte nei suoi film; la ri-creazione della realtà a Cinecittà; l’ambivalenza del sentimento religioso; la filiazione con il Neorealismo; il rapporto con i collaboratori, da Pasolini a Nino Rota; il potere dell’immaginazione, la psicanalisi e il sogno, l’iperproduzione iconografica della cultura contemporanea; la cronaca popolare; la relazione con i media; la fascinazione per le riviste illustrate e i fumetti; il rifiuto per la televisione. In arrivo dalla Francia, dove ha raccolto ottimi consensi con il titolo di Fellini, la Grande Parade, la mostra scompone e ricompone il mito felliniano nell’anno in cui ricorre il 50° anniversario dell’uscita de La Dolce Vita, arricchendosi nella versione bolognese di una sezione del tutto nuova, “Magie del fuori sink”, curata da Tatti Sanguineti e Roberto Chiesi e dedicata a “Fellini e la voce”, con numerosi materiali audio-video, e una serie di manifesti originali dei principali film del regista riminese, provenienti da una collezione privata e ora acquisiti dalla Cineteca di Bologna.

Link:
www.mambo-bologna.org

www.cinetecadibologna.it

 


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