George Clooney, nella sua ultima pellicola, prosegue il processo di demistificazione della cultura e della storia americana, operazione che risulta essere il fil rouge che lega tra loro le tappe della sua breve filmografia tutta rivolta al passato. Con Confessioni di una mente pericolosa ha cercato di far luce su un pezzo di storia segreta della Cia, in Good Night, and Good Luck ha indagato i rapporti tra informazione e politica, e ora, con In amore niente regole, fa i conti con gli interessi capitalistici che muovono il mondo dello sport professionistico. Si concentra sulla fase di passaggio tra fanciullezza ed età adulta del football americano, quando da sport improvvisato e sottopagato inizia a diventare oggetto d’attenzione per il mercato. Ogni capitolo del suo percorso registico ha per sfondo un diverso contesto storico, descritto attraverso soluzioni formali altrettanto diverse e perfettamente coincidenti con l’estetica dominante dell’epoca presa in esame. Confessioni di una mente pericolosa presenta un montaggio incalzante, nevrotico, vorticoso, mescola audacemente contrastanti linee stilistiche, tutti tratti tipici del giovane cinema hollywoodiano degli anni Settanta; Good Night, and Good Luck possiede una struttura sobria e rigorosa che rifiuta ogni forma di spettacolarizzazione, tutta giocata sui primi piani, com’era il linguaggio visivo adottato dai registi che si imposero sul finire degli anni Cinquanta e provenienti dal laboratorio televisivo. Con In amore niente regole Clooney ricalca, invece, gli stilemi della screwball comedy anni Trenta e Quaranta. Racconta la generazione di quegli uomini vissuti nell’avanzante minaccia della crisi economica e della grande guerra adottando il registro dell’entertainment, come Howard Hawks e Frank Capra, prova a tradurre il caos sociale di quegli anni in follia privata, in un mondo di stramberia ed eccentricità entro il quale è ancora possibile sorridere e addirittura divertirsi. Le costanti di genere sono rispettate: c’è il triangolo amoroso, la battaglia tra i sessi dirottata sul battibecco continuo e accanito, una figura di donna sicura di sé, disinvoltamente femminile, simpaticamente infida e capace di condurre il gioco come vuole, e tutta una serie di figure di contorno dai caratteri volutamente accentuati. Clooney dimostra di conoscere le strutture della commedia sofisticata, ma la sua regia è troppo cauta e non riesce ad assecondare la serie ininterrotta e fitta di scambi di battute, imbrigliando i battibecchi in un’eccessiva staticità, in un gioco rallentato di campi/controcampi che inevitabilmente ne smorzano la verve. L’opera risulta così un diligente esercizio manierista, ma privo di originalità e soprattutto innocuo, che è la peggior colpa per un film che vuole rifarsi al modello della screwball comedy, la cui essenza risiede nella sovversività nascosta dietro ad assurde divagazioni e al carattere illogico e surreale delle situazioni. Anche i toni nostalgici per un mondo andato perso sono suggeriti attraverso soluzioni formali ampiamente collaudate, come la fotografia che impasta colori caldi e morbidi facendoli virare sul giallo, tanto da far sembrare il film già datato, superato. La schizofrenia stilistica, che è la cifra di riconoscibilità del cinema di Clooney, in quest’ultima prova registica risulta essere fin troppo calcolata, studiata, leziosa, da tradursi in una mera operazione di ricalco priva di una propria personalità. TITOLO ORIGINALE: Leatherheads; REGIA: George Clooney; SCENEGGIATURA: Duncan Brantley, Rick Reilly; FOTOGRAFIA: Newton Thomas Sigel; MONTAGGIO: Stephen Mirrione; MUSICA: Randy Newman; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2008; DURATA: 114 min.
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