Il nastro bianco PDF 
Matteo Marelli   

Non ti prostrare davanti a loro e non li servire,
perché io, il SIGNORE, il tuo Dio, sono un Dio geloso;
punisco l'iniquità dei padri sui figli
fino alla terza e alla quarta generazione
di quelli che mi odiano.

(Esodo 20:5)

Pier Paolo Pasolini, in Lettere luterane, sosteneva che uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco fosse quello della predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Un argomento, questo, su cui, più volte, è tornato a riflettere Michael Haneke. Prima in Benny’s Video, sua seconda regia datata 1992, e poi, a distanza di tredici anni, in Caché - Niente da nascondere. Due film in cui, parallelamente al tema sopracitato, il regista portava avanti anche una rigorosa analisi dei meccanismi di quella che Guy Debord definì la “società dello spettacolo”.

Con Il nastro bianco, Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, Haneke interrompe la propria indagine sulle logiche spettacolari volta a far emergere le implicazioni morali sottese al ruolo spettatoriale, per affrontare di petto la questione etica della responsabilità. Per farlo prende a modello un piccolo villaggio agricolo del nord-est della Germania del 1913, rigidamente assoggettato all’autorità baronale, da cui tutti dipendono per la sopravvivenza materiale, e a quella pastorale, riferimento culturale e spirituale dell’intera comunità. A scuotere questa realtà, i cui ritmi vitali seguono le cadenze rituali dell’attività agricola, sono una serie di misteriosi incidenti: il dottore cade dal cavallo azzoppatosi a causa di un filo “invisibile”; una contadina muore in seguito ad un incidente sul lavoro; il figlio maggiore del barone è vittima di umilianti violenze sessuali; un ragazzino down viene brutalizzato e quasi accecato. Una concatenazione di disgrazie che fa affiorare istinti rancorosi, colpevolisti ed oppressivi, conseguenza di una dottrina sociale coercitiva e repressiva che non chiede solo ubbidienza, ma pretende adesione incondizionata. Una vera e propria fascistizzazione del comportamento attraverso la quale imporre norme e valori. Il villaggio è un collegio infernale dove bisogna conformarsi a regole e dogmi, e chi vi si sottrae o li infrange viene punito con sanzioni crudeli e spietate. La violenza si traduce così in abitudine, in realtà quotidiana, che in quanto tale non viene messa in discussione, ma al contrario assimilata ed imitata. Una normalità, parafrasando Hanna Arendt, più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica un nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, capace di commettere crimini senza rendersi conto delle malvagità delle proprie azioni (1).

Come evidenziato dalla filosofa e storica tedesca, un'intera società può sottostare ad un totale cambiamento degli standard morali senza che i suoi cittadini emettano alcun giudizio su ciò che sta accadendo. Recettori ultimi sono i bambini, che non fanno altro che emulare e reiterare i comportamenti di cui sono testimoni: essere prepotenti, brutali verso i più deboli e verso i più fragili, e utilizzare l’umiliazione rituale come strumento di dominazione. La loro vita assume le caratteristiche di un mostruoso processo pedagogico di apprendimento coatto. Lo scopo è quello di obbligare i ragazzi a sottomettersi incondizionatamente, rendendosi sordidamente complici, trasformandosi da vittime a collaborazionisti del potere, accettandolo, legittimandolo, ormai totalmente incapaci di ribellarsi allo stato delle cose. Il modo in cui questi sono mostrati da Haneke fa tornare alla mente la spietata descrizione di Pasolini dei giovani infelici: “[…] Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice […] carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica, squallidamente barbarica. Oppure, sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà. […] essi non hanno espressione alcuna: sono l’ambiguità fatta carne. I loro occhi sfuggono, il loro pensiero è perpetuamente altrove, hanno troppo rispetto o troppo disprezzo insieme […] i lineamenti sono lineamenti contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi da dentro. La stereotipia li rende infidi. […] L’eredità paterna negativa li può giustificare per una metà, ma dell’altra metà sono responsabili loro stessi. Non ci sono figli innocenti” (2).

Quello che si profila ne Il nastro bianco è un mondo in cui il male è legge permanente da cui non si può sfuggire. Haneke rielabora le teorie bressoniane sull'economia della forma e sulla densità dei contenuti, e in quest’ultimo film la sua incessante ricerca estetica condotta sulla visione negata raggiunge dei risultati di altissimo rigore formale: taglia le azioni, inquadrando i dettagli, saltando passaggi logici, negando gli snodi cruciali, lasciando intravedere l'inizio di un atto e precipitando bruscamente lo spettatore di fronte alle sue conseguenze. Nel suo cinema è il fuori campo a catturare l’attenzione. Al contrario di quanto tende a fare l’industria dell’immagine, il regista austriaco lavora in modo che si senta con forza la presenza di un altrove carico di molti più significati rispetto al rappresentato, come nel piano-sequenza in cui il pastore verga i suoi figli, di cui però si sentono solo le urla provenienti da dietro una porta. Così facendo Haneke rifiuta di assecondare le pulsioni scopiche del pubblico, desideroso d’essere servito di tutte le informazioni necessarie che possano permettergli di spiegare, razionalizzare e descrivere le situazioni. Il regista evita volutamente qualsiasi tipo di interpretazione. È straordinaria la sua capacità di raccontare l’orrore insito nel quotidiano, di costruire situazioni di tensione costante, lavorando su azioni banali e apparentemente insignificanti, cui riesce a far assumere, nel contesto della narrazione, impensabili aspetti di  minaccia. Respinge ogni eccesso espressivo, non dilata mai i tempi dell’azione, ma amplia le attese per mezzo di piani-sequenza a macchina fissi, nel quale lo stesso movimento interno all'inquadratura è totalmente assente. Tende a trasmettere una claustrofobia dei rapporti attraverso il confinamento dei personaggi in spazi asfittici e soffocanti, sovraccarichi di un mobilio pesante e limitante.

Quest’ultimo film di Haneke, pur facendo preciso riferimento ad un’epoca storica passata, quella nella quale è possibile rintracciare i prodromi del nazismo, è in realtà di ben più ampio respiro rispetto al contesto rappresentato. È una lucida riflessione sul vivere quotidiano e sui rischi possibili dell’affermarsi di ideali deviati.

Note:
(1) Hanna Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2009, p. 282.
(2) Pier Paolo Pasolini, I giovani infelici, in Lettere luterane - Il progresso come falso progresso, Einaudi, Torino 2003, pp. 7-10.

TITOLO ORIGINALE: Das Weiße Band; REGIA: Michael Haneke; SCENEGGIATURA: Michael Haneke; FOTOGRAFIA: Christian Berger; MONTAGGIO: Monika Willi; PRODUZIONE: Austria/Francia/Germania; ANNO: 2009; DURATA: 144 min.

 


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