Quella sporca ultima meta PDF 
Fabio Fulfaro   

Il cinema di Robert Aldrich è un cinema muscolare, virile, strabordante, in cui il conflitto tra il singolo e il sistema di potere diventa fonte di violenza e di sopraffazione, anche se con un potenziale eversivo di gran lunga inferiore al cinema “a testa bassa” di un Sam Peckinpah. Quella sporca ultima meta prende a pretesto la metafora sportiva proprio per sottolineare l’universalità del microcosmo carcerario, con il conflitto di potere tra il direttore (un perfido Eddie Albert)  e il capo delle guardie (un cattivissimo Ed Lauter), che impongono la loro violenza fisica e psicologica al campione di football americano Paul Crewe (un convincente Burt Reynolds), caduto in disgrazia tra partite vendute e relazioni sentimentali con amanti che lo mantengono.

Proprio l'incipit del film richiama questo clima di decadenza, tra trofei ormai impolverati dal tempo e un presente piccolo borghese fatto di televisione che trasmette partite di football americano. Mentre la donna richiede la prestazione sessuale, il nostro ex campione, stanco di vendere il suo corpo e la sua dignità, prova la sua fuga impossibile dal sistema che lo ha etichettato e sfruttato. Naturalmente finisce in un altro tunnel, non quello fatto di lenzuola ed estenuanti performance ginniche, ma quello carcerario, fatto di violenze e soprusi, di leggi non scritte e di diversi sistemi di potere. Il tono del film vorrebbe essere quello della commedia, e in effetti certe situazioni come quelle della segretaria con lo chignon ipertrofico o il balletto grottesco dei ragazzi “pon pon” potrebbero confermare questa ipotesi. In realtà certi eccessi di violenza e l'enfasi retorica (“questo è un grande sport fatto da grandi uomini”) riportano il film dalle parti della certo cinema americano, con gli eroi che trovano finalmente il loro momento di riscatto dopo una vita di sconfitte e compromessi. Insomma siamo più dalle parti di Fuga per la vittoria di John Huston e di Ogni maledetta domenica di Oliver Stone. Lo svolgimento della partita tra carcerieri e detenuti (47 minuti sui 121 complessivi), poi, è molto prevedibile e soprattutto rivela la volontà del regista di venire incontro ai desideri del pubblico, senza scontentarlo troppo.

Resta comunque la bravura di Aldrich nella messa in scena della partita: montaggio frenetico (quasi ansiogeno), ralenti improvvisi, split screen. Certo, a distanza di tempo il film perde un po' del suo vigore e della sua forza primordiale, e lo stesso discorso dell'individuo schiacciato dal sistema di potere perde un po' di significato cedendo il passo all’ostentazione muscolare e agli scontri sul campo. Aldrich sembra suggerire che nell'agone sportivo i colpi si danno e si prendono, e invece di condannare anche questa forma di violenza sembra mostrare un sottile compiacimento nelle manifestazioni di forza virile. Il film rischia così di scivolare nella solita retorica dell'uomo che “non deve chiedere mai”, forgiato dai pugni e dalle sofferenze, ma pronto al gesto nobile che lo riscatta. In un film così muscolare e maschile, le figure femminili non possono che risultare sbiadite e inconsistenti: da un lato l'amante Melissa, che vede respinte le proprie avances e tratta il nostro eroe da cretino (“come può essere uno così cretino da seguire due partite di football una dietro l'altra”); dall'altro la segretaria del penitenziario, che baratta un filmino delle partite dei carcerieri con una prestazione sessuale. Insomma siamo piuttosto lontani dalla visione dell'universo femminile di altre opere di Aldrich, come Foglie d'autunno, ma d'altra parte siamo negli anni Settanta, in piena rivoluzione sessuale.

Dicevamo dei debiti di Aldrich con il cinema classico americano. E in effetti l'ultima inquadratura del film è un evidente omaggio al finale di Sentieri selvaggi di John Ford. Anche se le differenze con il grande regista americano sono evidenti: i personaggi di Aldrich non hanno quella romantica malinconia, quella lucida rinuncia che li fa abdicare al proprio mito così evidente nell'ultima parte della filmografia fordiana. Burt Reynolds, qui, è un po' guascone, un po' ribelle, ma sempre superficiale nelle sue manifestazioni. Distrugge una macchina, fa resistenza a pubblico ufficiale, si ubriaca, anche quando è imprigionato cerca di adattarsi alle nuove regole del regime carcerario (descritto molto bene da Aldrich) senza avere una lucida consapevolezza del proprio ruolo. Così il gesto finale di cambiare le sorti della partita e dell'accordo con il direttore non risulta molto coerente con il carattere psicologico del personaggio, sempre pronto alla risata sardonica e a un cinismo disilluso.

Quella sporca ultima meta mette quindi insieme due filoni di successo del cinema americano, quello penitenziario e quello sportivo, eppure il risultato finale non convince del tutto. Il doppio tono del film, comico e insieme drammatico, fa perdere molti punti di riferimento allo spettatore, e il messaggio finale risulta ambiguo: bisogna scendere a compromessi con il potere per poterlo sovvertire? Chi sono i servi e chi sono i padroni? È necessario rispondere alla violenza con la violenza? Molti di questi quesiti rimangono insoluti. Un po' come iniziare a combattere lo star system hollywoodiano e poi fare una brusca retromarcia, con un occhio al botteghino. Ma d'altra parte Robert Aldrich non è Sam Peckinpah.

TITOLO ORIGINALE: The Longest Yard; REGIA: Robert Aldrich; SCENEGGIATURA: Tracy Keenan Wynn; FOTOGRAFIA: Joseph F. Biroc; MONTAGGIO: Michael Luciano; MUSICA: Frank De Vol; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1974; DURATA: 122 min.

 


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