Wall Street PDF 
Fabio Fulfaro   

Chi in cento battaglie riporta cento vittorie, non è il più abile in assoluto. Chi non dà nemmeno battaglia e sottomette le truppe dell’avversario, è il più abile in assoluto. 
Sun-tzu, da L’Arte della Guerra

Wall Street rappresenta uno dei film più personali di Stone, una summa della sua poetica ambivalente, sempre in perenne oscillazione tra la ribellione giovanile e il senso di colpa per il rifiuto della figura paterna, tra spinte progressiste e antichi rigurgiti reazionari. Il film è uno specchio molto fedele dell’edonismo reaganiano degli anni Ottanta, del think pink e della finanza d’assalto, degli squali in giacca e cravatta e degli psicopatici firmati Ralph Lauren e Hugo Boss (come il Patrick Bateman di American Psycho di Bret Easton Ellis) e ha molti debiti con due famosi film degli anni Cinquanta: La sete del potere di Robert Wise (Executive Suite, 1954) e Piombo rovente di Alexander Mackendrick (Sweet Smell of Success, 1957). In realtà, Stone approfitta della tematica dell’alta finanza (che conosce molto bene perché il padre Lois, cui il film è dedicato, era proprio un agente di borsa) per sviluppare il suo conflitto edipico con la figura genitoriale paterna. Figura che viene divisa in due metà (come nel film precedente Platoon): quella cattiva rappresentata dal cinico rettile Gordon Gekko (un Michael Douglas da Oscar che sembra riproporre il finanziere Carl Icahn, re negli anni Ottanta delle speculazioni sui junk bond, i famosi titoli spazzatura), che crede nel libero mercato e nella libera avidità; e quella buona del conservatore Carl Fox (Martin Sheen), che tiene le distanze dalla ricchezza facile e dai compromessi organizzando lotte sindacali per difendere il proprio lavoro dagli avvoltoi e dalle iene di Wall Street. A chiudere questo triangolo il figlio Bud Fox (Charlie Sheen, reduce dal successo di Platoon), volpe astuta e affascinata dal carisma del falso padre Gekko, ma con un occhio al Super Io formato sugli insegnamenti morali del genitore naturale Carl, ovvero il mito dell’America lavoratrice e onesta, che si è fatta con le proprie mani e ha dei saldi principi. Se pensiamo alla biografia di Oliver Stone, ai suoi difficili rapporti con il padre autoritario, alla sua fuga verso gli eccessi, alla sua pulsione di morte che lo porterà a combattere in Vietnam, alla sua ricerca dell'identità attraverso il  superamento dei limiti imposti dal sistema, allora risulta più facile capire come l’alter ego Charlie Sheen sia torbidamente affascinato dagli eccessi e dal carisma di Gekko. Stone ha sempre ipertrofizzato i caratteri dei protagonisti dei suoi film, a volte sfiorando la caricatura (Any Given Sunday, 1999), a volte sconfinando nel grottesco (Natural Born Killers, 1994). L’esagerazione, l’iperbole, la bulimia registica che a volte si trasforma in caduta di stile, riflettono questa schizofrenia di fondo che striscia sotterranea in tutta la filmografia del regista newyorkese.

Il film si apre sulle note di una famosa canzone di Frank Sinatra, Fly Me to the Moon, ad anticipare il folle volo di Icaro del giovane Bud Fox, mentre stupende immagini di New York dall’alba al tramonto (con in bella evidenza le Twin Towers in tutta la loro funerea verticalità) scorrono in maniera accelerata. Vediamo la folla accalcarsi nella metropolitana e poi il nostro ipercinetico Fox  fare il broker nella Grande Mela e gettarsi nel magico mondo di Wall Street. La macchina da presa è mobilissima, nervosa, irrequieta e riflette la velocità e la confusione di quel mondo. Scorrono numeri, monitor, telefoni: le mani si agitano, le urla si rincorrono, le parole si accavallano come in un Gran Bazar. Questo movimento forsennato di esseri umani sottende la caducità delle loro esistenze: il guadagno facile è spesso accompagnato da cadute altrettanto repentine. Si va sulle montagne russe e si sottraggono o si sommano milioni di dollari in pochi secondi, mentre le lancette dell’orologio scorrono crudeli. Il mito dell’impero economico americano ha le sue fondamenta nell’immorale e nel torbido, in una lotta spietata in cui vince il più avido. Nella prima parte del film, Oliver Stone riesce a rendere al meglio il clima frenetico della borsa, le alleanze, le coltellate alle spalle, le invidie e i rancori, le avidità travestite da mecenatismi, lo spionaggio industriale e la circolazione dell’informazione. Lo split screen moltiplica i punti di vista e le storie, facendo disperdere l’attenzione dello spettatore nelle infinite possibilità che la Grande Mela ti offre, quei quindici minuti di celebrità che l’America non nega a nessuno. Stone è anche molto attento ai particolari, si sofferma sulle psicologie dei due protagonisti principali: lo squalo Gekko, che antepone il Dio denaro a qualsiasi altra cosa, il giovanissimo broker Charlie Sheen, abbagliato da lusso e lussuria, pronto a vendere l’anima al diavolo pur di entrare nella New York che conta. “Qui si tratta di soldi, ragazzo, il resto è conversazione”, dice Gekko, ed è la summa dell'educazione “sentimentale” supportata dalla bibbia di Sun-tzu L’Arte della Guerra, che viene saccheggiata a man bassa dalla superba macchina da guerra dei manager rampanti e dagli avvocati senza scrupoli di Manhattan. Spike Lee e Paul Thomas Anderson, quasi vent’anni dopo, non faranno che riproporre il concetto che dentro la Grande Mela c’è il verme di segreti incofessabili (il furto dei beni degli ebrei durante la seconda guerra mondiale in Inside Man) e la mancanza di ogni parametro di lealtà e onestà intellettuale (il petroliere e il predicatore sono due imbonitori di folle pronti a sacrificare tutto per il loro potere in There Will Be Blood).

Ma il film diventa ancora più interessante quando mette a confronto Charlie e Martin Sheen (padre e figlio nella vita reale), in una sorta di contrasto generazionale che anticipa i drammi shakespeariani di Before The Devil Knows You Are Dead di Lumet. Nel primo incontro tra padre e figlio in un bar del New Jersey si delinea subito in poche battute di dialogo il divergente punto di vista dei due: mentre il padre rivendica l’onestà del suo lavoro e il rispetto di se stessi (“è di te stesso che devi essere fiero!”), il figlio rinfaccia al genitore una vita di sacrifici approdata nel nulla, senza certezze economiche, sull’orlo del fallimento (“non c’è nobiltà nella miseria”). E così  Bud Fox,  pur di incontrare il lucertolone Gordon Gekko (una proiezione dei propri desideri di grandezza), è disposto a fare una telefonata al giorno per 59 giorni di seguito nella speranza di scambiare qualche parola con lui. Ma l’ingenuità di Bud Fox diventa un’arma terribile nelle mani di Gordon Gekko che, conosciuto il ragazzo, lo seduce e lo fa precipitare nell’abisso dell’abiezione, prima usandolo come informatore per spionaggio industriale e poi come prestanome dei suoi loschi traffici. Se il denaro ti costringe a fare cose che non vorresti mai fare, è anche vero che ti spalanca le porte dei club e dei ristoranti più esclusivi, ti fa conoscere le donne più belle e ti fa abitare negli appartamenti più lussuosi. Il piacere e la vanità abbagliano il povero Bud, che diventa cieco e non si accorge di diventare burattino tra le mani di Mangiafuoco Gekko. Gekko non ama perdere, il suo motto è “o capitano o niente”, pensa che l’amore sia qualcosa che è stato inventato per evitare alle persone di pensare alla miseria delle proprie esistenze; colleziona pistole rarissime e robot-camerieri, donne e opere d’arte, (alle pareti dei suoi appartamenti vediamo Picasso, Mirò, Keith Haring). L’arte e la cultura sono funzioni della variabile indipendente denaro. È il denaro la misura e il valore di tutte le cose, anche perché nella vita sono sicure solo due cose: la morte e le tasse. Il capitalismo degli anni Ottanta lascia morti e feriti: il denaro si trasferisce da un’intuizione ad un’altra, fregandosene dei fondi pensione e dei mutui a tasso variabile in cui si barcamena la gente comune. Considerando che il film è del 1987 non possiamo non pensare al triste presagio della nostra Italietta tra orrore e folclore, parassitata da banchieri e dalle loro false obbligazioni, da palazzinari ricottari e dalle loro indecenti speculazioni, da imprenditori a la mod e dai loro falsi specchietti per le allodole, vampirizzata da politici corrotti e dalle loro leggi vergognose sul falso in bilancio e sui conti all’estero che fanno il gioco perverso delle grandi lobbies economiche.

Dicevamo della confusione politica di Oliver Stone: è un repubblicano che si traveste da democratico per opportunità o è un democratico che non ha rimosso i geni paterni repubblicani? Il dubbio è legittimo soprattutto se analizziamo il punto esatto in cui il film mostra la prima grossa crepa, cioè il momento del discorso di Gekko agli azionisti di una compagnia in difficoltà. La filosofia finanziaria dello squalo ricorda tanto certi falsi mecenatismi di casa nostra, certe discese in campo politiche truccate da solidarietà verso il più debole: “L’avidità è buona, è giusta, funziona. L’avidità in tutte le sue forme, avidità per la vita, il denaro, l’amore, la conoscenza, ha segnato l’ascesa del genere umano. E l’avidità salverà non solo la Teldar, ma anche l’altra compagnia in cattive acque, gli Stati Uniti d’America…”. Il discorso di Gekko viene condotto dall’inizio alla fine senza interruzioni. La macchina da presa ruota attorno all’oratore quasi ammaliata e sedotta dal fascino perverso di quest’uomo. La seduta degli azionisti sembra proprio tradursi in un trionfo del Male, quasi fosse una necessità ineluttabile. Non c’è bisogno di aggiungere che il delirio di Gekko è stato sconfessato vent’anni dopo dalla terribile crisi finanziaria che dagli Stati Uniti ha coinvolto l'intera economia mondiale. Alla fine non puoi prendere all’infinito acqua dal pozzo, alla fine ti riscopri con tantissima terra nel secchio e tantissima gente sul lastrico. L’avidità del liberismo e della finanza creativa ha creato un buco difficilmente risanabile in tempi brevi. Chissà quante guerre economiche travestite da guerre sante e da lotte per la democrazia per rimettere a posto gli equilibri. Il peggio deve ancora venire.

Dicevamo della prima crepa del film. E in effetti da quel momento in poi, quasi per un complesso di colpa per aver ammirato il Male, la nota etica si ingigantisce a dismisura, le iperboli si sprecano. La crisi di coscienza ha il suo culmine nel momento dell’arresto di Charlie Sheen da parte della commissione di vigilanza che ricorda al giovanotto che il fine non giustifica i mezzi e lo porta via tra le sue lacrime di coccodrillo. “L’uomo guarda nell’abisso, ma nessuno risponde al suo sguardo, in quel momento scopre il suo carattere e solo quello lo tiene fuori dall’abisso…”, insomma un evangelico “solo chi cade può risorgere”, troppo esplicitato per essere convincente. Per non parlare del faccia a faccia finale in Central Park, rapido quanto improbabile, che maciulla quanto di buono si era visto prima. In  tutta questa parte votata alla conversione e redenzione a farne le spese è, per esempio, il personaggio di Daryl Hannah, che non acquista mai un barlume di personalità, mal guidata da Stone, che le fa assumere pose d’altri tempi e dire battute scontate, ridicolizzandola. Se si pensa che anche Sean Young (la moglie di Gekko) viene ridotta a semplice apparizione stile replicante ci si rende conto che il sessantatreenne regista di New York deve avere qualche piccolo problema di misoginia. “La donna è mobile qual piuma al vento”, e anche il Rigoletto viene citato a man bassa nella scena della cenetta romantica tra Charlie Sheen e Daryl Hannah. Ma la sensazione è che ,tra prostitute che fanno il servizio completo in limousine e mogli svampite che non si chiedono da dove arrivano tutti quei soldi e amanti con il cartellino del prezzo ancora attaccato addosso, Oliver Stone sia molto lontano dal comprendere la sensibilità dell’immaginario femminile. La sua immagine della donna è un po’ retrodatata e semplicistica, zeppa di luoghi comuni. A risollevarci un po’ nel giudizio negativo concorrono la splendida apparizione di Terence Stamp, che inonda lo schermo di carisma, e classe e le musiche di Stewart Copeland, ex Police, e di David Byrne dei Talking Heads

Si è accennato al pistolotto morale e al tono predicatorio che sembra avere preso il sopravvento nell’ultima fase della filmografia di Stone (vedi Alexander, e soprattutto World Trade Center). In realtà le conclusioni moralistiche sono in linea con le tematiche autoriali di Stone, che sembra ispirarsi più al cinema di John Milius e di Michael Cimino che a quello del suo maestro di scuola Martin Scorsese. Nel caso di Wall Street questo orpello declamatorio appesantisce inutilmente il film, sbilanciandolo. Anche politicamente, Stone sembra dare un colpo al cerchio e uno alla botte, e questo film rappresenta in pieno la summa del suo complesso edipico e politico. È del mese scorso la notizia che Wall Street avrà un seguito (dal titolo provvisorio Money Never Sleeps), probabilmente con ancora Michael Douglas nella parte di Gordon Gekko: non so, magari avessimo qualche dubbio che non viviamo in una democrazia, ma siamo tutti, volenti o nolenti, soggetti alla dura legge del libero mercato. “Io non creo, io posseggo” dice Gordon Gekko. “Quello che posseggo, mi piace distruggerlo”, dice Patrick Bateman in American Psycho. E, veramente, non si esce vivi dagli anni Ottanta.

Beh lo so, avrei dovuto farlo davvero ma ho venticinque anni Cristosanto e questa è, uh, la vita come si presenta in un bar o in un club di New York, o magari dappertutto, alla fine del secolo, e così si comportano le persone, avete presente, come me, e questo è quel che per me significa essere Patrick, immagino, perciò, beh, yup, uh...dopo di che sospiro, mi stringo nelle spalle e sospiro di nuovo, e sopra una delle porte mascherate da tende di velluto rosso di Harry’s vedo un cartello e sul cartello dello stesso colore delle tende c’è scritto QUESTA NON E’ L’USCITA.
Patrick Bateman, in American Psycho di Bret Easton Ellis, trad di Giuseppe Culicchia, Einaudi Editore

TITOLO ORIGINALE: Wall Street; REGIA: Oliver Stone; SCENEGGIATURA: Oliver Stone, Stanley Weiser; FOTOGRAFIA: Robert Richardson; MONTAGGIO: Claire Simpson; MUSICA: Stewart Copeland, David Byrne; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1987; DURATA: 126 min.

 


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