66° Festival de Cannes PDF 
Aldo Spiniello   

È strano. Per quanto questo Festival di Cannes numero 66 sia stato esaltante, grazie soprattutto a un concorso che non si vedeva da anni, sembra che il cinema faccia sempre più fatica a uscire dal gorgo di questi tempi bui. Probabilmente, è davvero tutto perduto, come annunziano J. C. Chandor e Robert Redford nella folgorazione più inaspettata e destabilizzante di questa edizione (fuori concorso). E allora tocca confrontarsi con quel che si ha, quel che si riesce ancora a vedere. E non a caso, a parte Il grande Gatsby di Luhrmann e, a modo suo, La grande bellezza di Sorrentino (due film speculari, diversi, ma più vicini di quanto non s'immagini), davvero la dimensione della "grandezza", con la sua prospettiva di meraviglia estetica e sfida produttiva, è esclusa dall'orizzonte. Il cinema vive di notte, al chiuso, in un teatro vuoto. Si appoggia alle sottigliezze di uno psicoanalista/antropologo/mago per raccontare di famiglie o naufraghi alla deriva, di padri, fratelli, figli da ritrovare, di amori piccoli e impossibili, sogni da coltivare nascondendo se stessi e le proprie meschinità dietro un candelabro. In fondo, persino The Immigrant di James Gray, quello che poteva essere, sulla carta, un kolossal sulla scoperta dell'America e il suo rifiuto, è un film da camera che si gioca a tre, se non addirittura a due personaggi, che preferisce farsi assorbire dal buio denso di un confessionale o di una fogna, piuttosto che offrirsi alle grandi speranze dello spazio.

È come se la Storia non ci fosse più, irrimediabilmente fuoricampo, azzerata dalla fine del mondo. Norte, the End of the History: è più che mai illuminante il titolo scelto da Lav Diaz per l'unico vero film fuori misura di questo festival, animato da una straordinaria tensione apocalittica (ma quanti soldi sarà costato, 2 euro? E quanto piccolo, in verità, è questo film, con le sue 4 ore e 10 minuti, un'inezia rispetto alle titaniche imprese del filippino?). È questo l'incipit vero da cui iniziare a riflettere. E gli incipit, si sa, non mentono. Come quell'inquadratura di Bérénice Bejo (miglior attrice) che apre Le passé di Asghar Farhadi: una figura che fa gesti e articola suoni muti dietro una vetrata. Le parole si son perse, non tessono più la trama di un dialogo. Stanno lì, come gusci vuoti, a testimoniare l'impossibilità di una storia condivisa, un'impasse insormontabile. E la dice lunga (o non dice nulla?) il fatto che lo stesso film di Farhadi si inchiodi, a un certo punto, su una trovata di sceneggiatura che invece di mandare il racconto avanti lo fa girare a vuoto. Finendo per aggrapparsi disperatamente ai volti della Bejo, di Ali Mosaffa, di Pauline Burlet e Tahar Rahim, sempre più l'idiota del cinema europeo (come è evidente anche nello strano e affascinante Grand Central di Rebecca Zlotowski, altro film sulla fine dell'amore e del mondo).

Ecco, il cinema si arrovella su un punto fisso, gira in tondo e a vuoto, con quel doppio movimento rotatorio del giradischi e della macchina da presa che apre Only Lovers Left Alive. È proprio il film di Jarmusch il più lucido nel cogliere la crisi definitiva della Storia, intesa come tempo che scorre, l'impossibilità del progresso e del cambiamento, se non attraverso l'illusione rassegnata della ripetizione. Il movimento del cinema e della Storia che racconta è circolare. È stretto in un bling ring coppoliano, dove l'immagine ha definitivamente soppiantato il reale e il glam ha scavalcato l'intera scala, dichiarando il suo valore ultramilionario. Nel suo ritmo sempre uguale, il cinema è monotono, quindi, come le esistenze dei due stanchi vampiri di Jarmusch, che passano i loro giorni, excusez-moi, le loro notti, alla ricerca di un goccio di sangue da acquistare sul mercato (la compravendita ha sostituito la concretezza della produzione), amandosi per abitudine. E il tempo non è più una cronologia, risponde alle leggi della catalogazione, è un accumulo di segni e di materiali che sopravvivono nella land of the lost dell'immaginario, dove Shakespeare e Marlowe sopravvivono accanto a Soul Dracula. E se davvero, scampati alla fine del mondo, dovessimo rassegnarci a non morire mai, a perpetuarci nell'illusione dell'immagine, a spostarci sempre lungo lo stesso asse epocale che va da Detroit a Tangeri? Abbracciando con lo sguardo una Terra fatta di macerie, antiche e industriali, materiali e non...

O se, piuttosto, fossimo già tutti morti, zombie più che vampiri, inadatti al sentimento e impediti nel movimento? Chissà che non abbia, in fondo, ragione Refn quando annulla ogni azione ed emozione. Only God Forgives è il punto d'arrivo, perfettamente conseguente, assolutamente inutile, di un cinema che persegue una stilizzazione mortifera, coniugando la pittura e il teatro con i colori accesi e finti di una visione "artistica" che sembra procedere in loop. Il film è "videoinstallato", quindi fermo, fisso a un punto, come l'espressione immobile (nulla?) di Ryan Gosling. Ma non c'è niente di sconvolgente, nonostante le pretese. Niente di lucido, a parte le superfici. Chissà se, piuttosto, non sia il caso di dar retta a Sorrentino, quando esibisce spudoratamente la muscolarità della sua regia, ma solo per far prendere aria alle sue mummie, al suo mondo di morti ... Cinema esteticamente alla moda, ma sostanzialmente retrivo, ripiegato su ciò che non esiste, più che su ciò che non è, quel nulla flaubertiano che pare la maggior ambizione di Sorrentino. Eppure, quella povertà tanto ricercata rimane, per forza di cose, fuori dal mirino, proprio in quell'unico angolo non raggiunto dai voli assurdi e dai movimenti continui della sua macchina da presa. Qui, la grande bellezza davvero non esiste, è oscurata dal velo di un'estetica incosciente, vuota eppur pesante.

Allora, se proprio teatro ha da essere, se davvero è questione di corpi imprigionati tra il palco e le quinte, occorre affidarsi a Polanski, che davvero scava nelle perversioni di questo girare a vuoto e fa cinema con il nulla. La Vénus à la fourrure è il vero hardcore di questo festival, un nuovo cul de sac di coltelli nell'acqua, carneficine abbigliate fetish e vagamente nobilitate dal pretesto teatrale di David Ives che rifà Leopold von Sacher-Masoch. Da quattro a due: il cinema si concentra nelle quattro mura di un teatro dove si affrontano un regista nevrotico e una provinante hot. Ma il gioco della messinscena è un anagramma. La finzione inquina l'autobiografia (quello splendido Amalric non è Polanski, incatenato al fascino malato della sua Emmanuelle Seigner?). E i personaggi si scambiano i ruoli, finendo per mescolare le trame e le traiettorie, moltiplicandosi tante volte per quanti sono i potenziali inespressi dei loro desideri e delle loro paure. Sono pervertiti e quindi sostanzialmente fluidi, proteiformi. S'immaginano liberi, ma si scoprono schiavi delle proprie pulsioni, repulsioni. Eppure si dispongono a una trasformazione costante (e se fosse qui l'Holy Motors di quest'anno?). Polanski gira un film di massa con due persone, un kolossal in atto, seppur non in potenza, disarticola gli spazi e ci svela il nuovo compito che il cinema si è assegnato a questo grado zero della Storia e dei racconti. Lavorare sulle variazioni dell'anima e dei rapporti per sconvolgere e ribaltare quella dimensione minima a cui è condannato, per riscoprire, oltre la monotonia, la polifonia delle cose e degli uomini e, oltre l'impasse e l'arresto, una prospettiva temporale, passata o futura. La gioia o l'angoscia di fare cinema rimette in moto il mondo, non importa se verso la meraviglia delle piccole cose o la disperazione della tragedia. È come un processo di guarigione fondato su un lavoro di scavo e ingrandimento dell'oscuro, del rimosso, del dimenticato. Quel che occorre è la fede. Come sa bene Desplechin, che con Jimmy P. replica la strategia di Devereux nella poco ortodossa psicoterapia del suo indiano "des Plaines" e gira un magnifico film sulla fiducia, sulla capacità e il desiderio degli uomini di affidarsi, interagire e reagire (ben oltre qualsiasi ipotesi di normalizzazione impossibile). Come sa bene, del resto, Rithy Panh, vincitore di Un certain regard, sempre occupato a trovare l'image manquante, a riempire quei vuoti di memoria, materiali e psicologici, individuali e collettivi, che costituiscono il buco nero del passato orribile della Cambogia.

Questo movimento del cinema che apre, ingrandisce e libera è proprio l'esatto opposto di quello che compie La vie d'Adèle, l'osannata Palma d'oro. Kechiche, a dispetto delle tre ore di lunghezza, delle libere prospettive di una storia lunga una vita (e di cui questo film costituisce solo i primi due capitoli), restringe sempre più il suo sguardo, obbligandolo e obbligandoci all'asfissia di un primo piano praticamente ininterrotto, di dialoghi interminabili, di sequenze estenuanti. Preso dalla sua ossessione per la durata, Kechiche non si avvede che il tempo, oggi più che mai, ha bisogno di un'altra prospettiva, di spazi più o meno grandi, più o meno angusti, ma entro cui poter far agire un principio di trasformazione, ritrovare un'immagine che metta in atto una scintilla. Alla fine, tutto si ferma sulla pelle, sulle superfici, gli umori e i fluidi delle protagoniste, Léa Seydoux e, in particolare, Adèle Exarchopoulos, magnifica, eppur ingabbiata nel voyeurismo del regista. Non che il film sia disprezzabile. Ma la sua vittoria, tra gli onori della critica, sembra più la conseguenza di un'attenta strategia di politica culturale, che conferma il francocentrismo di Cannes.

Continuiamo a preferire l'altra strada, quella del cinema che "passa e libera", che assume il rischio della verità, che affronta le cose fino a stravolgerne i limiti, magari facendo esplodere la finzione sotto la pressione della realtà, come il sorprendente Heli di Amat Escalant. Ma soprattutto come fa Jia Zhang-ke, ancora una volta in magico e pericoloso equilibrio tra il controllo della materia ("sa sempre dove mettere la macchina da presa") e la scoperta dell'imprevisto, tra la lucidità spietata dell'osservazione e il miracolo dell'invenzione. A Touch of Sin esplora le modalità della rappresentazione della violenza, dal teatro al cinema, racconta di personaggi poco adatti, schiacciati dalla contemporaneità. Ma trova, a ogni passo, vertici sublimi di bellezza e umanità. Contuiamo a preferire quei film imperfetti, ma che testimoniano ogni istante il piacere e la necessità di far cinema, come Blood Ties di Canet o lo stesso Nebraska di Payne, minuscolo road movie. Piacere e necessità che arrivano a far vibrare le fondamenta stesse del classico, come Soderbergh (altro regista che "non può farne a meno") nel suo Behind the Candelabra o, per altri versi, il televisivo Muhammad Ali's Greatest Fight di Stephen Frears. E pensando proprio a Clive Owen e Matt Damon, a Bruce Dern, a Michael Douglas, a Christopher Plummer, non possiamo far a meno di amare questi attori che mettono ancora in gioco se stessi, la propria immagine, per farla tornare di nuovo carne, riportarla alla concretezza della vita. Anche quando si tratta di accettare la scommessa di film brutto, come fa l'immenso Jerry Lewis in Max Rose. Anche quando si è soli, naufraghi, alla deriva, senza che la nostra parola, quel "Fuck!" gridato a squarciagola possa essere ascoltato dal dio dell'universo o del cinema. Vero Robert Redford?

Eccoci tornati all'inizio. Forse non tutto è perduto. È ancora possibile immaginare storie che incontrino la verità delle nostre vite. Kore-eda, con Like Father, Like Son, crea un cortocircuito tra gli occhi e il cuore e ci dice che la grande bellezza esiste ancora, ma non ha bisogno di essere urlata. La si trova alla fine del cammino, al termine del sali e scendi di una strada accidentata. Riposa in quell'infinitamente piccolo che tende alla dismisura dell'infinito. In un'inquadratura che riunisce l'impossibile o disgiunge l'uno. Come nel finale di The Immigrant. Ecco, James Gray, ci fa vedere il sogno americano nel trucco di un illusionista. E ci accompagna sino alla fine dell'amore, del film, della storia. Ma ci lascia in dono la potenza smisurata del cinema. Che tocca gli occhi e la vita.

 


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